Centro Servizi e Spettacoli di Udine / Rita Maffei
C’è un’idea di teatro che abbiamo, come spazio di pensiero civile, della contemporaneità dei fatti e delle emozioni, di un teatro che si sporchi le mani, che sempre non se le lavi, rispetto alla vita.
SA: I vostri spettacoli anche con poche persone hanno la forza ed il linguaggio di una moltitudine, possiamo definirlo politico?
RM: Crediamo nell’idea che il teatro non sia isolato dal mondo e che, come ogni altra forma d’arte, dialoghi con la realtà. Viviamo in una realtà difficile rispetto alla quale sento il dovere civile di impegnarmi, anche con il mio lavoro. Non è il momento di isolarsi nella torre eburnea in cui spesso il teatro o la cultura in genere si rifugiano. Nei nostri spettacoli i personaggi, anche se parlano di miti, non sono eroi, sono persone comuni di fronte alle soglie importanti della vita, hanno il linguaggio di una moltitudine perché parlano a tutti, parlano all’uomo dell’uomo.
SA: Perché la guerra vi coinvolge in modo così intenso? la vostra collocazione geografica vi influenza?
RM: Può darsi, anche se ormai la guerra non è più una questione di confini: il conflitto esiste in ognuno di noi, dovunque abitiamo, attraverso l’informazione è parte del nostro quotidiano, lo sgomento fa parte sempre più della nostra vita. Le vicende internazionali dell’anno trascorso (non mi riferisco solo all’11 settembre, ma anche al G8 di Genova, alla situazione mediorientale, la politica europea ecc.) hanno cambiato completamente la nostra percezione del mondo, della nostra vita, della nostra presunta invulnerabilità, al punto da sentire la presenza del conflitto al di là dei confini.
SA: Parliamo di "Tracce di un sacrificio",cosa vi ha spinto su questo argomento?
RM: Tracce di un sacrificio è uno spettacolo nato nel 1996 che ha avuto una grande fortuna, accolto molto bene dalla critica e dal pubblico e che gira l’Italia per la sesta stagione consecutiva. La versione che abbiamo portato a Palermo è stata ridotta per necessità di spazio, ma lo spettacolo integrale prevede una soluzione scenica molto complessa, costituita da un doppio percorso parallelo fatto di stanze, celle, corridoi, all’interno dei quali gli spettatori entrano insieme a noi, divisi tra maschi e femmine, origliando e spiando a tratti ciò che accade all’altro sesso, per poi ritrovarsi solo nell’ultima scena. Si tratta quindi di uno spettacolo in cui lo spettatore è chiamato a vivere il racconto della storia di Alcesti entrando in una sorta di campo di sterminio astratto (che può essere un lager nazista, come un gulag russo, come un carcere in Ruanda, come una prigione in sud America, come un campo in Bosnia) e assistendo alla storia dal proprio punto di vista, diventando parte del coro involontario che accompagna i protagonisti della tragedia. Volevamo raccontare una storia estrema d’amore, in una condizione estrema in cui fosse plausibile che qualcuno abbia diritto di vita e di morte su altre persone, volevamo raccontare un rito sacrificale, volevamo guardare negli occhi lo spettatore per raccontare questa storia, portandolo con noi, attraverso questo racconto, a guardare dentro di sé.
SA: All'inizio di "Tracce di un sacrificio" mi sono trovata a rammentare il Cile, ai tempi mio figlio, piccolo, giocava con una coetanea fuggita dal paese, con un padre desaparesidos e una madre straziata, lei mi parlava di stanze...
RM: Si, penso che anche nella versione che abbiamo portato a Palermo si colga l’essenza dello spettacolo, i ricordi che ti sono tornati alla mente significano che il nostro racconto evoca simboli che parlano di diverse situazioni geografiche e storiche che purtroppo continuano a esistere.
SA: Ci si trova in un determinato momento ad essere divisi tra il rancore (pensando alla Palestina) e la compassione ricordando l'olocausto, la mia domanda è dura, ma mi preme, secondo voi la vittima e il carnefice nell'essere umano sono così separate?
RM: Assolutamente no, è questo uno dei temi che più mi interessano: abbiamo portato in scena Katzelmacher, un testo di Fassbinder che abbiamo appena finito di recitare a Milano nell’ambito del festival che i Teatridithalia hanno dedicato ai vent’anni dalla morte dell’autore tedesco. Katzelmacher è il termine spregiativo con cui nei paesi di lingua tedesca vengono chiamati gli immigrati e il testo parla appunto di un immigrato greco che va a lavorare in un paese bavarese che lo teme e lo rifiuta fino a renderlo vittima di un pestaggio, ma quando nella fabbrica in cui lavora arriverà un altro lavoratore turco, sarà la stessa vittima a comportarsi come i suoi carnefici, rifiutandosi di lavorare col nuovo arrivato. E’ un testo molto bello, in cui Fassbinder, giovanissimo, già affrontava questi temi a lui molto cari, sia nell’ambito sociale che nelle relazioni d’amore. Non c’è alcuna separazione tra vittima e carnefice, ognuno di noi può coprire entrambi i ruoli, e se soltanto riuscissimo ad ammetterlo si guarderebbe con occhi diversi e meno ipocriti ogni conflitto.
SA: Potreste dirci, se vi è successo, quando si è lì sul palcoscenico a vivere (in momenti diversi) le due parti, se c'è un momento in cui si apre nella mente una zona neutra e si possa comprendere qualcosa in più degli uomini?
RM: Tracce parla anche di questo: seguire la storia di Alcesti sapendo che esiste un altro punto di vista significa tenerne conto, sapere che esiste. Come anche in Katzelmacher: nel momento in cui colui che ritenevi vittima diventa carnefice, inevitabilmente ti mette in crisi, ti fa porre delle domande. Io credo che uno spettacolo funzioni non quando dà delle risposte, ma quando fa sì che lo spettatore si faccia delle domande. Anche per comprendere chi ha un punto di vista diverso dal tuo.
SA: Il vostro territorio fisico e il vostro territorio creativo sembrano incrociati da una moltitudine di razze e di epoche, quale territorio, quale epoca e quale cultura è della vostra tradizione (a cui attingete)?
RM: Credo nella cultura della diversità, nel desiderio di conoscenza dell’altro, del diverso da te. E’ terribile quando qualcuno pretende la superiorità della propria cultura, della propria razza, della propria lingua, della propria religione. Non c’è nulla di più pericoloso e di più cieco.
SA: Perché tante lacrime di donne? pensate che loro possano in questa epoca riscattare la vita?
RM: Ti riferisci ad un altro nostro spettacolo che si intitola “Lachrymae” , che in realtà è anche molto divertente: è il racconto di una storia buffa e improbabile di una statuetta di Madonna del Sud che per una serie di vicissitudini è finita al Nord Italia e che confessa al suo sacrestano il desiderio di tornare al Sud, ma i dialoghi surreali tra i due sono incrociati dalle voci delle donne che nel corso degli anni hanno pianto i loro dolori. La Madonnina diventa l’icona del dolore femminile e come dice l’autrice Carmen Yanez “con me camminano queste donne che io sono”.
SA: Cosa ti fa pensare, Rita, il martirio del tuo ultimo personaggio?
RM: Parli di Alcesti, immagino. Le parole del monologo finale, le ultime sue parole prima di morire, sono tratte da Shakespeare, Turoldo e da un testo di Fassbinder “I rifiuti, la città e la morte” e nel testo originale sono dette da una prostituta che decide di morire. Ma sono parole talmente grandi che potrebbe dirle un Cristo in croce, Alcesti che regala la sua vita per salvare quella del suo uomo, un malato di AIDS o (un’immagine che ci tocca così da vicino in questi giorni) una kamikaze palestinese. Dice: “Dio, chi sono io la tua rappresentante in terra? Io non voglio più vivere questa vita, Dio. Voglio donarla voglio offrire me stessa in sacrificio, a questa città che ha bisogno di vittime: non c’è sempre una pecora infetta che deve morire per salvare il gregge? Ma anche per salvare me stessa, per salvarmi da una morte in questa vita, che mi renderebbe uguale a tutti coloro che hanno dimenticato cos’è la vita, ormai muti, vuoti, ottusi. Perché stiamo a guardare come se la tragedia fosse interpretata da attori che recitano? I morti non sono morti e i vivi non sono vivi. Non ci sono che uccisi e assassini. Io abdico. Dio!”
SA: Devianza criminalità e teatro, come fare entrare nel cerchio magico della poetica questa realtà? ci si riesce veramente? riesce veramente questa parte di umanità martoriata a trasformare creativamente il proprio dolore?oppure il teatro rimane come atto sociale di integrazione?
RM: Non lo so! E’ una domanda impossibile. So che il teatro può aiutare a comunicare, è il mezzo più rapido per parlare alla coscienza di ognuno e penso che possa essere uno strumento valido per trasformare il dolore. Lavoro nella sezione femminile del carcere di Udine e le detenute che ho incontrato hanno avuto modo di usare il teatro per incontrare se stesse, mettendosi in crisi o come strumento liberatorio, come terra di nessuno dove esercitare l’immaginario, come luogo di libertà nella detenzione.
SA: la vostra anima creativa cosa insegue ? le basta muovere corpo, parola e psiche, o per la trasformazione aggiunge altri ingredienti anche difficili e dolorosi?
RM: Intendo il mio lavoro come un artigianato più che come opera d’arte, una bottega in cui corpo, parola, immaginazione, ma anche scene, costumi, luci, musica operano insieme in un lavoro di equipe dove nessuno è indispensabile ma tutto è necessario. L’ingrediente da aggiungere penso sia la propria coscienza, uno sguardo il più possibile onesto e libero da ipocrisie.
SA: Quale tra i vostri personaggi potrebbe rappresentare oggi la vita in tutta la sua pienezza ?
RM: Chiunque rappresenta la vita in tutta la sua pienezza, non solo i nostri personaggi. Anche il mio cane che dorme. Se esiste un Dio, si sta vedendo uno spettacolo bellissimo quaggiù.
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