Con “civiltà dell’immagine” indichiamo un momento della storia dell’umanità, quello attuale, caratterizzato dal consumo di rappresentazioni d’ogni tipo. Scorriamo fotografie, illustrazioni, video, nel corso di una ricerca su internet, guardando un telegiornale o sfogliando un rotocalco, in una quantità inimmaginabile solo per la generazione che ci ha preceduto. In questa condizione di consumo frenetico esercitiamo l’inevitabile superficialità dello sguardo che ci impedisce di trattenerci su significati profondi, ma al tempo stesso, permette di preservare le risorse cognitive che dovremmo imparare a impiegare con maggiore attenzione. In realtà, la dizione “civiltà dell’immagine” stigmatizza un luogo comune. Sull’uso e abuso dell’immagine si fonda non solo la nostra attualità, ma l’intera modernità, la cui infanzia coincide con quella della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa che sull’immagine fondano il loro potere. L’arte ha avviato da subito una riflessione sulla natura e lo statuto dell’immagine, essendo essa stessa la principale fonte di produzione di rappresentazioni. In particolare, negli ultimi decenni, all’interno dell’esperienza della Pop art e, per diversi aspetti, del Nouveau Realisme, il tema dell’immagine d’uso quotidiano ha interessato fortemente gli artisti, spingendoli a indagare tutte le potenzialità della riproduzione meccanica e automatica, da Warhol, a Polke, a Schifano e infine a Koons. Di recente, il recupero della pittura, che ha portato alla rivisitazione dei fondamenti delle avanguardie, si è espressa anche nella riattualizzazione di un approccio neoespressionista, ancora in Germana con i Neuen Wilde, fino a quella che conosciamo come “bad painting” di marca inglese. Le più giovani generazioni che oggi fanno pittura, seppur figli dei selvaggi tedeschi o alla luce della “cattiva” scuola anglosassone, mostrano di non ignorare le suggestioni pop, prospettando una linea di lavoro di interessanti commistioni. È il caso di Dario Molinaro che parte solitamente da immagini tratte dal web, dalla televisione o dalla vita quotidiana per interventi condotti utilizzando una spessa pittura fatta di ampie pennellate e campiture che solo in parte rispettano la composizione originaria. Anzi, l’energia utilizzata dall’artista per trasfigurare l’immagine di partenza fa pensare piuttosto alla volontà di annullarne la forma, fino a renderla irriconoscibile. Dario Molinaro non esprime una predilezione nella scelta delle rappresentazioni di supporto alle sue opere. Sono immagini tratte dalla pubblicità, dal cinema, anche di serie b, dalla cronaca: interviene con forza sulla loro superficie come se volesse cancellare delle figure, che però inevitabilmente in questo modo finisce per restituire a una nuova vita. Quello di Dario Molinaro è un gesto iconoclasta, nel senso autentico della volontà di negazione e rottura della configurazione data, ma se c’è un insegnamento che possiamo trarre dalla retorica della comunicazione è che per abolire un messaggio lo si deve dimenticare. È l’oblio e non la negazione lo strumento: negarlo, anzi, lo rafforza, come mostrano le cronache giornalistiche di affermazioni e successive smentite. Ecco dunque che la ricerca di Molinaro individua una linea, non necessariamente programmatica, spesso frammentaria e casuale, ma utile alla riappropriazione delle immagini, a un atto di trasfigurazione grazie al quale le immagini stesse sono reimmesse nel circuito dell’uso visivo. Utilizzando la pittura e dunque il materiale più nobile e tradizionale della tradizione, l’artista fa in modo, però, che tale uso si inscriva nel dominio proprio dell’arte, di una riflessione profonda, per la quale, non è consentito di scorrere le immagini senza soffermarsi. Le sottrae al consumo parossistico per dare conto di una durata. In fondo, l’arte serve a questo, a restituire tempo allo sguardo.
A cura di Domenico Maria Papa
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