Riccardo Mannelli sui giornali ci sta da oltre trent’anni. Un fatto che di per sé genererebbe l’invidia delle “nuove leve” che cercano di trovare spazio nel grande circo dell’editoria. Però, a quanto ne so, e ne conosco a decine di bravi e giovani disegnatori, nessuno si è mai sognato di dire o pensare: “Perché non si fa da parte?”. Se mai dovesse succedere, immagino già Riccardo che se la riderebbe e risponderebbe: “Ok, non ci sono problemi, adesso prova a fare meglio di me”. E lì sarebbero cazzi, perché la produzione artistica-editoriale di Mannelli non rispetta i confini assegnati all’ordinario “colpo di genio” del vignettista. Il mestiere è una cosa, il talento è un altro. E la mano di Riccardo, se vivessimo in un mondo meno minchione, dovrebbe essere assicurata almeno a dieci volte tanto il valore per cui è assicurato il piede di Cristiano Ronaldo (sembra che ci sia una polizza da 103 milioni di euro sui suoi calli). Ma la mano è nulla senza l’occhio che corre e la testa che esplora e il cuore che sceglie. Per questo Mannelli ha saputo fornire i migliori ritratti di una società che cambia e di un’Italia cialtrona, decadente, volgare e vigliacca. Sono le carni di quest’Italia che parlano, ogni singola ruga o smorfia che viene da questo mondo diventa uno squarcio per guardare i fatti in profondità. Le mollezze e le tensioni che attraversano i protagonisti della scena politica e sociale sono rappresentate nella loro massima luce e i neri della sua bic amplificano la realtà, che diventa un’iper-realtà dove anche il più piccolo imbroglio si ingigantisce sotto il peso di un sopracciglio che sta per fare crack. Le parole non servono a Riccardo, ma ciò non toglie che le sa usare molto bene, senza fare sconti - questione di “gastrosincerità”, direbbe lui -, anche quando, come in quest’intervista, è invitato a raccontare di sé e del mondo che accoglie le sue opere. Un mondo in cui prevale sempre di più un essere che tutti conosciamo molto bene: la “mezzasega”. Buona lettura.
SA: Benvenuto su SuccoAcido, Riccardo! Il Suo è un vero talento naturale. A che età ha cominciato e cosa la spingeva a disegnare?
RM: Come ogni bambino ho cominciato subito a disegnare… la differenza con gli altri è stata che io ho continuato. Tutto quello che vedevo e che vedo o anche che intuisco o annuso, da che mi ricordo, mi sembra essere lì solo perché io lo disegni. Non è una spinta, niente e nessuno mi spinge, neanche il bisogno di soldi. È una pulsione naturale, che ho sempre dato per scontata. Del resto chi è che si chiede cosa lo spinge a respirare...?
SA: Nella Sua formazione, da chi o da che cosa si è sentito particolarmente influenzato?
RM: Ho avuto una formazione da autodidatta, sconclusionata, umorale. Mai disciplinata. Per cui tutto mi ha sempre influenzato, non c’è niente nella storia dell’espressione artistica umana che non mi interessi e che periodicamente non mi coinvolga.
SA: Come e quanto si avvale del digitale nel disegno?
RM: Lo uso solo per la post-produzione, per colorazioni o impaginazioni. E solo caricando la macchina con miei materiali, cioè scansionando olii acquarelli carboni etc. Non uso mai colorazioni o segni che non portino un po’ di materia.
SA: Grazie al reportage Nicaragua (Giorgio Sestili Editore, 1985), oggi è considerato un precursore di quello che viene definito graphic journalism. Potrebbe raccontarci come procedeva nella realizzazione delle illustrazioni?
RM: Mi organizzavo i viaggi, e una volta sul posto mi affidavo all’istinto. Ho sempre usato quaderni o blocchi per schizzi di qualità infima per il lavoro dal vero, penna bic e macchine fotografiche per la documentazione. Per anni, per lavori più immediati, ho utilizzato la polaroid soprattutto per la precisione dei ritratti e dei particolari ambientali. Per lavori più complessi come Nicaragua organizzavo il racconto in singole tavole, costruendole al ritorno, con tutto il materiale dei quaderni e quello fotografico.
SA: A quell’epoca Nicaragua ha suscitato perplessità da parte dell’editore? Dei Suoi colleghi? E del pubblico? Con quali conseguenze?
RM: Nessuna perplessità da parte dell’editore che lo pubblicò, era un amico ed era uno spericolato sperimentatore, infatti ebbe una vita brevissima (come casa editrice intendo, la persona per fortuna è viva e pimpante). Molto più che perplessità, invece, da parte dell’editoria ufficiale e della stampa periodica e quotidiana: fu un vero e proprio ostracismo. Anche da parte di molti colleghi, che preferivano cavalcare il momento di fortuna mediatica che stavano ottenendo all’epoca la vignetta o il fumetto cosiddetti politici. Io ho sempre pensato che il mio lavoro satirico consistesse anche nell’andarsi a cercare notizie e informazioni in prima persona, senza accontentarsi di fare commenti più o meno sapidi sulle notizie predisposte dalla stampa ufficiale; all’epoca non esisteva internet e quindi l’unico modo per avere fonti d’informazione diverse dall’ufficialità era andarsele a cercare. Questo provocava spesso fastidio, o anche peggio, da parte di chi non se la sentiva di organizzarsi una visione del mondo personale o non ne era capace. Il pubblico, viceversa, quando poteva accedere alle mie cose (all’epoca erano abbastanza introvabili, mal distribuite e per niente pubblicizzate) ha sempre risposto con entusiasmo. E questa è stata sempre la mia fortuna. Le conseguenze di queste difficoltà iniziali sono sotto gli occhi di tutti: l’Italia anche in questo frangente ha perso l’occasione di sfruttare idee e talento provenienti “dal basso” non investendo risorse nel futuro prossimo e perdendo l’opportunità di aprire nuovi mercati editoriali che oggi altri paesi gestiscono con buoni profitti.
SA: Ha collaborato con i principali periodici satirici italiani (Il Male, della cui cooperativa è stato tra i fondatori, Cuore, Boxer, Humor, Satyricon di La Repubblica), con riviste a fumetti come Linus e Alter Linus e con giornali e riviste come l’Espresso, L’Europeo, la Stampa, Il Messaggero, Lotta continua, il Manifesto e oggi disegna per Il Fatto Quotidiano. Controcultura e mainstream possono avere dei punti di incontro, secondo la Sua esperienza?
RM: Non ho mai usato il termine controcultura, non ne ho mai capito il significato. Ho sempre cercato di far arrivare le mie proposte artistiche o mediatiche al più alto numero di persone possibile. Ho sempre pensato che bisogna essere presenti nel circuito ufficiale, o mainstream se preferite. Il mio problema spesso è stato che l’ufficialità me lo ha impedito, che mi è stato negato l’accesso per motivi “strani”, che non hanno mai riguardato la qualità o la consistenza artistico-culturale delle mie proposte. Non ho mai, dico mai, ricevuto critiche che entrassero nel merito del mio lavoro; solo rifiuti basati su argomentazioni pretestuose (tipo “limiti del buon gusto”, “offese al comune senso del pudore” e altre paccottiglie varie) o “niet” ideologici. La vera questione, soprattutto in questo paese, è che un certo tipo di proposta rischia di innalzare il livello medio, di elevarne la qualità e questo inopinatamente è considerato un pericolo… anzi IL pericolo numero uno. Le persone possono abituarsi al meglio, possono affrancarsi dall’imbecillità subìta per mancanza di alternativa… non sia mai. Senza contare che un sacco di gente sarebbe costretta a mollare l’osso, praticamente quasi tutto l’artistaio contemporaneo, per conclamata inadeguatezza. La vera questione, qui, è la prevalenza della mezzasega. Mezzasega che spesso e volentieri infesta anche ambiti dell’autoproduzione sotterranea o “alternativa”, come trampolino per sgomitare fino alla visibilità ufficiale. Un motivo in più per diffidare del termine sdrucciolo di “controcultura”.
SA: Come definirebbe lo specifico carattere della satira? Cosa distingue la satira dall’umorismo?
RM: La satira è il ritmo. È il battito empatico con la contemporaneità. È entrare in sintonia con le vere pulsioni umane del tempo e tirarne fuori un racconto. La dimensione satirica prima di tutto si vive, in prima persona. L’Etica e la Morale raccontate dall’Idiota, cioè da chi è considerato fuori-schema, dal Candido, dal Disadattato. La satira secondo me si differenzia dall’umorismo perché non può mai diventare un mestiere; è una condizione esistenziale, difficilissima da gestire professionalmente. Puoi esercitarla periodicamente ma poi devi fermarti, sennò diventa manierismo. Oppure se vai a diritto sulla gastrosincerità diventa una malattia. Io, pur avendo le difese immunitarie di un King-Kong, ho preferito smettere: prima di tutto perché mi stavo annoiando e poi perché volevo dedicarmi con maggiore forza alla composizione pittorica.
SA: In un’intervista ha dichiarato che l’Italia è diventata, da almeno vent’anni, un paese bigotto. Perché allora la satira continua ad avere un certo seguito popolare?
RM: L’Italia è sempre stata un paese bigotto, che negli ultimi venti-trent’anni s’è pure incarognito. Infatti la satira non ha nessun seguito popolare, per il semplice motivo che nessuno la fa più. Tantomeno io. Quello che si vede in giro è umorismo, televisivo o giornalistico, che prende spunti dai personaggi politici (attenzione: non dalla Politica, che è un’altra cosa) e dalle loro malefatte.
SA: Ci darebbe qualche spiegazione in merito al titolo della Sua ultima raccolta, Fine penna mai (Coniglio editore, 2013), che raccoglie tutti i disegni della rubrica “fuorigioco” de Il Fatto Quotidiano? L’intenzione è quella di sottolineare il rapporto di continuità che lega le 380 pagine del volume?
RM: Fine penna mai è mutuato dalla definizione giuridica dell’ergastolo: fine pena mai. Volevo sottolineare la condizione da ergastolani, da condannati a vita alla pernacchia, allo sberleffo, sia mia che dei personaggi che ritraggo nei miei disegni.
SA: Fine penna mai, al momento, non ha riscosso grande risonanza. Scarseggiano le segnalazioni e le recensioni. Come mai, secondo Lei?
RM: Mah, il solito cocktail di cialtroneria, disattenzione e incompetenze professionali; con in più la mancanza di piaggerie e autopromozione da parte mia. Ci sono invece in rete un sacco di “recensioni passionali” da parte dei lettori e questo mi garba assai di più.
SA: Ci parlerebbe dei Suoi rapporti con la censura in Italia?
RM: Ho sempre sostenuto che la cosiddetta censura sia una manifestazione più che legittima della propria disapprovazione nei confronti di qualsiasi cosa, purché sia responsabilmente motivata e sostenuta da una sostanza etica: del resto il ruolo che svolge la satira e anche gran parte dell’espressione artistica cos’è, se non una forma di censura nei confronti di certi fatti o comportamenti umani?
Il guaio vero è la mancanza di censura che subiamo in questo periodo, soprattutto (ancora una volta) in Italia; non c’è più nessuno che si assuma la responsabilità di gestire una idea di mondo, una visione sociale o politica o anche morale; perfino la chiesa, in questi anni, si sta relativizzando. Sarebbe una bella sfida potersi confrontare dialetticamente con un potere politico economico o religioso che oppone una decisa censura alle tue proposte. Invece siamo costretti in questo brodetto andato a male, dove al massimo subisci dei vigliacchi bastoni tra le ruote o degli ipocriti “consigli per il tuo bene”, ma dove nessuno si assume la responsabilità di dirti di no. La censura ormai è un falsissimo problema: non si parla o non si rappresentano certe cose per paura d’infastidire questo o quello, perché potrebbero esserti utili o potrebbero garantirti certe risorse economiche. È una forma agghiacciante di autocensura interessata, di cui nessuno si azzarda a parlare.
SA: Nel 2011 ha ricevuto il premio Forte dei Marmi per la Satira Politica. Crede in questo tipo di riconoscimenti?
RM: Non è che bisogna “crederci”: ci sono e basta. Se ricevi un premio può anche farti piacere sul momento, ma non è che ti cambia la vita, se non vuoi che te la cambi.
SA: È anche insegnante di disegno dal vero, disegno istintuale, anatomia e movimento. Cosa dice ai suoi allievi il primo giorno di lezione?
RM: Quello che gli ripeto per tutti e tre gli anni di corso: mettetevi al lavoro, e buon divertimento. Generalmente mi danno ascolto, anche perché gli conviene visto che sono anche il direttore del dipartimento illustrazione.
SA: Se dovesse esprimere un apprezzamento verso un disegnatore satirico emergente, a chi penserebbe e perché?
RM: Ripeto: non vedo satira in giro. Per il resto sono sempre molto attento alle proposte artistiche delle nuove generazioni. Sono sinceramente curioso e avido di novità.
SA: Immaginiamo che decidesse di incentrare una monografia satirica su un personaggio pubblico, del presente o del passato. Chi sceglierebbe e perché?
RM: Se davvero mi venisse la voglia, un personaggio del passato e del presente: dio.
SA: Le concediamo uno spazio libero per lanciare un messaggio…
RM: …Non c’è campo…
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