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Comics - About Comics - Interview | by Gianpiero Caldarella in Comics - About Comics on 21/07/2013 - Comments (1)
 
 
 
Kanjano

Incontro con il filosofo pittiere, autore con Carlo Gubitosa del libro “ILVA, comizi d’acciaio”...

 
 

SA: Ciao Giuliano, la prima cosa che vorrei chiederti riguarda il tuo nome, quello che ti sei scelto, “Kanjano” che ha lo stesso suono del tuo cognome, ma nel momento in cui lo si scrive ci si accorge che qualcosa è cambiato. Un particolare all’apparenza insignificante, però in un mondo di vignettisti e fumettisti che quando decidono di darsi un nome d’arte (vedi Makkox, Zero Calcare, Ciaci el Kinder...) si distaccano da sé, tu hai deciso di mantenerti apparentemente (foneticamente) identico. Ecco, quello che vorrei chiederti (e non si offenda Marzullo) è se c’è una differenza tra Kanjano e Giuliano Cangiano nell’affrontare la sfida di raccontare il mondo e poi se qualche volta ti è capitato di firmare qualche documento, magari all’ufficio anagrafe, con il nome che ti sei dato, quello con la “K”. I due Kangiani hanno mai finito col coincidere, al di là della tua (vostra?) esperienza artistica?
K: Ciao Gianpiero, ma davvero dici? Allora cerco di fare luce finalmente su questo annoso e insondabile interrogativo. La K cerchiata sui prodotti alimentari indica la certificazione Kosher: va da sé, quindi, che la forma grafica del mio nome, con la “J” che tutta s’avvolge e si racchiude attorno alla K, ha il compito di tranquillizzare i consumatori rispetto al fatto che io sia munito di zoccolo fesso, oltre ad essere un ruminante.
Oltretutto, con questa scelta felice (che mi porto dietro dai banchi di skuola), mi sono anche assicurato l’errore di pronuncia e quello di trascrizione ogniqualvolta mi si sia parata dinanzi la possibilità di avere una visibilità superiore (come quella volta che hanno parlato di me in Rai chiamandomi Caniano) o di mettere il mio nome nelle mani di qualcuno che ne potesse fare buon uso.
Nulla a che vedere, insomma, con le “K” usate dai movimenti sessantottini per sottolineare il rifiuto del Sistema borghese-capitalista-imperialista-conformista. Nulla.
A proposito dello scollamento, se Giuliano Cangiano era un ragazzone placido e studioso che dormiva poco per trovare il tempo per disegnare, Kanjano è un placido nevrotico insonne e procrastinante.
Quella di raccontare quel poco di mondo che mi è dato di vedere e capire è un’urgenza sinusoidale che cambia forma e approccio in base al momento che vivo, ma di fondo è uno strumento che mi permette di restare un nonviolento. Meglio una matita che una spranga, no? Se te la sfascio sulla testa, almeno.

SA: Una laurea in filosofia in tasca e tante storie in testa che si traducono in immagini. In che modo la tua formazione ha influenzato il tuo percorso artistico? Se avessi la possibilità di lavorare fianco a fianco con uno dei grandi filosofi della storia per rappresentare con un fumetto la realtà che viviamo oggi, chi vorresti al tuo fianco? Se te lo chiedesse Socrate, pubblicheresti per Mondadori?
K: La laurea in filosofia è appesa ad un chiodo su una parete in casa dei miei: dalla tasca l’ho tirata fuori quasi subito, che volevo lasciare lo spazio per i pìccioli. Quello di studiare filosofia è stato un escamotage al sapore di invito alla lettura: non posso considerarla certo la classica “formazione”. Ho scelto questo percorso per questioni prettamente logistiche: mi avrebbe lasciato un sacco di tempo per dedicarmi alla mia passione primaria. Non ho pensato nemmeno per un secondo che mi sarebbe mai tornata utile per un futuro lavorativo. Per leggere la realtà, invece, probabilmente sì. Non ho una grande passione per i “grandi filosofi della storia”, penso che se Giordano Bruno avesse provato lo Psilocybe avrebbe colto sfumature ancora più illuminanti.
Una collaborazioncina con Charlie Kaufman non me la negherei: e se pensi che lui non sia un filosofo, ma solo un regista Hollywoodiano, vatti a riguardare Synecdoche, New York, adesso.
Se me lo chiedesse Mondadori, pubblicherei per Mondadori. Pubblicare e lavorare esclusivamente con e per i “compagni” è un’idea fallimentare che, prima o poi, mi costringerà a smettere di fare questo lavoro e che già non mi permette di mantenermici. O dici che lavorare sotto Concita De Gregorio per L’Unità è più dignitoso che farlo per il nemico?

SA: Uno dei tuoi ultimi lavori è il libro La mia terra la difendo, realizzato con Carlo Gubitosa per conto dell’Associazione Altrainformazione. Un libro denso di poesia che si è classificato tra i finalisti del Premio Micheluzzi e che racconta la storia di un ragazzo, Giuseppe Gatì, che nel 2008 contestò duramente Vittorio Sgarbi ad Agrigento. Una “storia minore” di quest’Italia che dimostra indifferenza o fastidio per i suoi figli migliori. Perché avete deciso di raccontarla dal momento che la vostra intenzione non era quello di glorificarlo o trasformarlo in eroe? Quanti Giuseppe Gatì ci sono in Italia?
K: Mentre rispondo a queste tue domande sono seduto sotto una tettoia del piazzale antistante la vecchia stazione di posta di Campobello di Licata, il paese di Giuseppe. Ieri sera qui c’è stata una festa per celebrare lui e le sue idee. Una festa, non una commemorazione, un momento per esaltare la forza e la dignità di quei siciliani onesti che nella propria terra vogliono restare e vivere, liberi. Quella di Giuseppe, come dice Riccardo Orioles, è la storia di un soldato di fanteria. Non è una storia minore, è una storia qualunque, una come tante. Di un ragazzo di vent’anni che coltiva un amore esplosivo per questo pezzo di terra e la sua bellezza e che ha voglia di camminare con la testa alta per le sue strade.
Carlo s’è appassionato alla sua storia e mi ha proposto, conoscendo anche un po’ i miei trascorsi (di siciliano espiantato dopo un’esperienza di resistenza editoriale massacrata a colpi di querele), di raccontarla. Raccontarla per spargerne i semi, per propagarne il senso. Io Giuseppe lo conoscevo pure, lo conoscevo per quel filmato della contestazione a Sgarbi, lo conoscevo perché mi tornavano familiari le parole che scriveva sul suo blog “Sono loro che se ne devono andare da questa terra, quelli che l’hanno martoriata, non io”: mi sembrava di sentir parlare il me di dieci anni fa. E, di conseguenza, mi suonava naif. Ripercorrere la sua vicenda, invece, mi ha ricordato che “diventare grandi” non può significare dimenticare da dove si è partiti.
Giuseppe non aveva alcuna voglia di chinare il capo di fronte al sopruso, aveva voglia di riprendersi quello che gli spettava di diritto, uno spazio legittimo di libertà e dignità. Urlando in faccia al potente di turno, circondato dai suoi immancabili tirapiedi, tutta la sua insofferenza. Un gesto simbolico e potente, in continuità con un pensiero e un vissuto quotidiano di resistenza esistenziale e culturale.
Non volevamo farne un santino e non lo abbiamo fatto: abbiamo raccontato la forza delle idee e abbiamo aperto uno spiraglio su una vicenda umana semplice e onesta che rischiava di scomparire per via della sua lontananza geografica dal fulcro degli accadimenti notiziabili e per la facilità con cui la rete fagocita storie e indignazioni.
Una vicenda che somiglia alle tante che ogni giorno, in questa terra luminosa e sofferta, compongono la lotta instancabile all’odiosa consuetudine del diritto come concessione.
Il sorriso beffardo di Giuseppe è rimasto lì, attaccato alle facce belle dei suoi amici, nonostante lui non ci sia più.

SA: Il tuo lavoro spazia dalla satira alle graphic novel all’editoria per l’infanzia. In quale di questi mondi ti senti più a tuo agio e perché?
K: Mi sento a mio agio con un lapis in mano e qualcosa da dire sulla punta delle dita. Sono linguaggi complementari quelli coi quali mi confronto, quando sento mancare uno degli aspetti che rende “piena” la mia arsura creativa, espressiva, ludica e terapeutica, mi rifugio in un altro dei miei mondi. Il mezzo, in ogni caso, si piega sempre a quello che hai voglia di raccontare ed al tono che senti più nelle tue corde. La cosa importante è saper scegliere quello più efficace per il tuo scopo e per non smettere di star bene mentre lo fai. Il mio è un lavoro lento ed io sono un disegnatore lentissimo, se iniziassi anche ad annoiarmi o a sentirmi insofferente mentre disegno sarebbe davvero la fine.

SA: Passiamo adesso alla satira. Da una decina d’anni sei una presenza costante ed apprezzata in pressoché tutte le riviste satiriche pubblicate in Italia, da Pizzino a Emme a Il Male ecc ecc. Perché secondo te nessuna di queste esperienze è durata più di due anni e tutti questi giornali sono passati come una cometa? E soprattutto, dove sono andati a cadere i detriti di queste comete? Qualcuno si è fatto male? La satira politica in Italia scomparirà dalla carta? Vedi più omologazione o radicalità dietro penne e matite che promettono di rivoltare il mondo? Pubblicheresti su Libero te lo chiedessero?
K: Rigirerei a te la domanda, onestamente. Se io sono stato un presenza, tu sei stato spesso l’anima o il suo vice. La scarsa durata, a mio avviso, sta nella scarsa capacità di rinnovarsi: è come se, una volta azzeccata la “formula” non si riuscisse più a fare un passo in una direzione diversa. Cosa gravissima, soprattutto per un’arte com’è quella satirica che basa tutto sulla sua capacità di stravolgere la lettura del reale, di sorprendere, disvelare, divertire, spiazzare. Mettere dei binari a questo tipo d’espressione equivale a condannarla a morte. Pizzino è stato l’unico a non morire per tedio di sé e per questo è anche l’unica carta che ricordo con piacere. Emme annoiava per la prevedibilità del suo target, per l’autoreferenzialità degli argomenti sviscerati, per la reiterazione della sua gabbia. Molti bravi autori, ma sottodimensionati nell’utilizzo. Un gioco di prestigio il cui trucco non è più segreto smette di lasciarti a bocca aperta. Del Male (anzi, dei Mali) posso dire che sarebbe meglio lasciare i vecchi “maestri” giocare da soli: loro si divertirebbero di più e noi non rischieremmo l’ulcera. Raramente, però, mi sono imbattuto in un prodotto editoriale basso come il Male di V&V. Anche lì, qualche bravo autore tra i miei coetanei, per il resto molta noia e la sensazione, da lettore, di non godere del rispetto dei suoi creatori. Umorismo da bar “à la Vauro” come se piovesse, intervallato da qualche genialata in formato francobollo e conformismo a tutta pagina. Da dimenticare.
Di questi anni non rimarranno “testate”, forse qualche testa, ma di certo resterà indelebile la responsabilità dei grandi vecchi di aver usato malissimo lo spazio di credibilità e fiducia che il “mercato” gli aveva concesso, bruciando moltissime chance per gli orfani di edicola. La scollamento dalla realtà da sessantenni benestanti può essere un ottimo punto di partenza per imparare a delegare a chi nella realtà vive immerso fino al collo, non per ricominciare a sgomitare. Sulla lunga distanza, nonno, hai già perso a tavolino.
I detriti di quelle che tu chiami comete sono caduti in zone diverse dell’editoria emersa e non. Diciamo che qualcuno di questi detriti aveva il paracadute, molti altri stanno ancora cercando di capire dove sono finiti, altri ancora si sono rimboccati le maniche. Non credo di far torto a nessuno se dico che Mamma!, la prima rivista in Italia di giornalismo a fumetti e satira intelligente, sia uno dei detriti più interessanti venuti giù dai suddetti meteoriti. Da qualche numero mi occupo io della direzione editoriale, su sacra incoronazione dei fondatori Carlo Gubitosa e Mauro Biani e, al netto della indiscutibile perfettibilità, sono parecchio orgoglioso della qualità dei contenuti e della squadra di autori che siamo riusciti a mettere su. In questo momento ho tra le mani la rivista che da tempo mi piacerebbe trovare in edicola.
Non sono grandi le forze economiche e logistiche a nostra disposizione, ma c’è una grande volontà che, sono sicuro, ci permetterà di fare parecchia strada. Ah, per inciso, Mamma! in edicola non c’è, ma abbonarsi online è talmente facile che non posso non invitare i lettori di SuccoAcido a fare un giro su mamma.am per provare da sé.
Tornando alla satira: per me è destinata a rinnovarsi, non a morire. Sicuramente le forme più classiche, che sul web hanno trovato uno spazio di esistenza quasi ideale, presto dovranno arrendersi ad abbandonare la carta. Internet è troppo più veloce delle rotative: spesso una vignetta, quando approda in edicola, è già vecchia di ere.
Non c’è omologazione, tra quelli che reputo “autori”, quantomeno. Ce ne sono di bravi, di bravissimi, di ineguagliabili, di invidiabili. Tutti molto originali nella cifra e nell’approccio. D’altra parte la rete è pure piena di monnezza che si appiccica addosso etichette che non le appartengono, ma quella è la piaga della democrazia, che vuoi fare. Se mi lasciassero libero di dire e fare il cacchio che mi pare pubblicherei tranquillissimamente su Libero, ma pure su La Sicilia con un braccio legato dietro la schiena e le mutandine piene di banconote.

SA: La tua “rigirata” di domanda meriterebbe più spazio. Intanto non credo il Male di V&V di cui sono stato caporedattore e quindi sarei quantomeno “corresponsabile dello sfascio”, sia stato, come del resto le altre riviste satiriche, un’avventura editoriale da dimenticare. No, degli errori sono stati fatti, ma tutti questi giornali da “edicola” potevano resistere se avessero avuto a monte un progetto che fosse stato più chiaro e visibile del nome degli autori che lo stavano realizzando. Tutto qui. Adesso toglimi una curiosità. Se esistesse il premio “Ignobel” per la satira a chi lo assegneresti?
K: A me medesimo. Non ne ho mai preso uno, di premio.

SA: Ti va di parlarci dei tuoi prossimi lavori? A quanto ne so, è in uscita un libro sull’Ilva di Taranto per i tipi di Beccogiallo, ma c’è anche una mostra che porterai a luglio a Lampedusa per il Lampedusa In Festival.
K: Sempre con Carlo Gubitosa abbiamo appena dato alle stampe ILVA, comizi d’acciaio, in uscita l’11 luglio per Becco Giallo. Una raccolta di storie di persone qualunque, anche in questo caso, tutte strettamente legate all’esistenza degli impianti dell’ex Italsider. Da quelle dei contadini che gli impianti li hanno visti nascere sulle ceneri delle loro masserie e dei loro campi a quelle dei mitilicoltori che avrebbero fatto carte false per barattare la loro attività, stentatamente di sussistenza, con la promessa di una vita dignitosa al soldo dell’industria. Si tratta di un bel volume, parecchio ricco e articolato: abbiamo cercato di sviscerare in maniera precisa una pira di temi importanti e delicati, senza abbandonarci ad improvvidi giudizi. Abbiamo aperto delle porte, abbiamo lasciato intravedere delle realtà, abbiamo cercato di non percorrere strade cronachistiche già solcate da altri. Fossi in te, me ne procurerei un copia, così mi dici pure che te ne pare.
A Lampedusa , invece, porterò una bella mostra collettiva che ho curato insieme alle amiche dell’associazione “Amanda”. Con una dozzina di altre bravissime matite s’è deciso di raccontare a fumetti il pensiero di Thomas Sankara, il presidente rivoluzionario che ribattezzò l’Alto Volta “Burkina Faso” (terra degli uomini integri) dimostrando, con tre anni di pratiche politiche concrete ed essenziali, quanto auspicabile e realistico fosse osare inventare l’avvenire. Sostiene Sankara - Racconti disegnati di felicità rivoluzionarie non porta in giro facce o liturgie, ma racconta storie disegnate usando le parole di Sankara come colonna sonora.
C’è un bel blog che permette all’uomo del web di visitare la mostra comodamente assiso davanti al monitor, questo: sostienesankara.blogspot.com. In ogni caso, nei prossimi mesi prevediamo ancora parecchie tappe in giro per l’Italia, ci sarà occasione per ciascuno di ammirare la bellezza di certe matite e di certe idee.

SA: “Insorgere, risorgere, fare cassa, espatriare”. Questa frase compare aprendo il tuo sito kanjano.org. Che vuol dire? Il disegno non paga a sufficienza per espatriare? Nel caso riuscissi in questo intento, saresti disposto a trasferirti a Santo Domingo, magari in compagnia di Marcello Dell’Utri o pensi di non essere abbastanza bibliofilo?
K: Vuol dire che m’illudo poco sul futuro, che a volte sono tentato di dedicarmi alla marchetta e alla ricerca del soldo per poter finalmente mollare gli ormeggi. Ma mi riscopro sempre un inguaribile romantico e preferisco la resistenza alla fuga.
Con Marcello Dell’Utri condividerei giusto il cesso, per il piacere di occuparlo prima di lui al risveglio.

 


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  Grazie
  posted by Nessun untente on 10/07/2015 16:57:07
 
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