Vincenzo Caricari ha 30 anni. Dopo aver studiato e girovagato per la penisola, tre anni fa ha deciso di tornare a vivere nella sua terra natale, la Calabria, che presto è diventata protagonista indiscussa di tutti i suoi documentari. Una terra che si potrebbe definire come dimenticata da dio se non fosse per delle presenze eccezionali, quotidianamente impegnate a cambiare, migliorare e far conoscere le proprie condizioni di vita pur nella semplicità dei mezzi e delle ambizioni. Vincenzo è una di queste persone. Dopo essersi occupato, in GGGiovani – Ragazzi di Locri, delle contagiose e arrabbiate proteste dei cosiddetti “ragazzi della Locride”, scatenatesi dopo l’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale Franco Fortugno, ha seguito (nel documentario La guerra di Mario) con costanza e devozione le vicende di Mario Congiusta, padre di Gianluca, un giovane commerciante ucciso dalla ‘ndrangheta. Uno dei suoi ultimi lavori, prima di dedicarsi a un mestiere più redditizio, è Il Paese dei Bronzi, uno spaccato del comune di Riace e del suo modo originale e lungimirante di far fronte alla povertà e allo spopolamento crescenti. Senza trucchi estetici né vittimismo, Vincenzo ha il tocco discreto e umile del reporter, di colui che guarda la realtà e sente l’urgenza di raccontarla nel modo più sincero possibile.
Da dove arriva la tua passione per il mondo del cinema e cosa ti ha spinto dietro la macchina da presa?
VC: Ero a Rimini nel 2003, studiavo economia lì, e vagando per la città mi imbattei in alcuni manifesti su cui vi era scritto “Retrospettiva su Fellini”. Allora decisi di entrare e iniziai a vedere i suoi film, spinto solo dalla curiosità. Rimini è la città natale di Fellini. Dai suoi film capisco che esiste anche un cinema diverso dal solo cinema di intrattenimento. Da qui nasce la mia volontà di stare dietro la macchina da presa, in veste quasi di narratore, e l’esigenza di raccontare ciò che mi circonda da un punto di vista diverso da quello dei media tradizionali.
Quando ti sei reso conto che potevi essere il narratore e non lo spettatore?
VC: C’è stato un momento in cui ho iniziato a capire che avevo voglia di comunicare, di dire qualcosa, di raccontare me stesso e ciò che mi circondava, ma non nei modi consueti, bensì in modo diverso. Allora, resomi conto che il mezzo cinematografico poteva essere usato anche per questo, ho cercato di capire come fare vedendo film di registi che attraverso il loro cinema hanno detto tutto quello che volevano dire. Per fare tutto ciò scopro che esiste un genere di cinema, il documentario, che ti mette in stretto rapporto con lo spettatore, è più diretto. Così il mio primo lavoro è stato un documentario su quei ragazzi ribellatisi all’indomani dell’omicidio Fortugno, a Locri. Il contesto in cui sono cresciuto, la Locride, non l’ho mai accettato: le regole non scritte, la mafia, la mentalità. Con questo mezzo sono riuscito a sfogare ciò che non mi andava, raccontando le negatività della mia terra in modo schietto e non artificiale.
Raccontare la Calabria è una scelta o una necessità?
VC: Raccontare la Calabria nasce dall’esigenza di sfogare le mie frustrazioni nei confronti di ciò che mi circonda, le negatività che mi hanno fatto e mi fanno soffrire vivendo qui da 30 anni.
L’arte può modificare la società? In tal senso la bellezza, dunque il valore delle immagini, può migliorare l’uomo e la società?
VC: L’arte è decisiva per chi ha la disponibilità interiore di recepirla e fruirla, cioè una piccolissima parte della società. Le immagini ormai hanno perso valore: tutto è immagine. La tv con le sue immagini riciclate e standard ha la capacità di bloccare, anzi di far regredire il cervello. È difficile trovare le immagini giuste, quelle che potrebbero salvare la società, e chi si propone di cercarle e di proporle andrebbe tutelato, protetto e beatificato.
Il tuo documentario forse più rappresentativo è La Guerra di Mario. Come nasce e perché?
VC: Era il 2006, stavo girando il documentario sui ragazzi di Locri. Durante le riunioni mi accorgevo che spesso era presente un uomo, un 60enne, in mezzo a una decina di 16enni. Lo conoscevo di vista, sapevo della storia di Gianluca: quando è stato ucciso in paese siamo rimasti tutti di merda; era proprio sotto gli occhi di tutti, era conosciutissimo, un esempio di positività. Questo 60enne in mezzo ai ragazzi mi faceva un certo effetto. Abbiamo iniziato a frequentarci. Ho iniziato a conoscerlo , dal “voi” sono passato al “tu”, scopro che era compagno di scuola di mio padre. Inizio a seguirlo nei suoi interventi pubblici, noto la rabbia che c’è nelle sue parole durante le conferenze antimafia. I suoi discorsi sono diversi, non sono standard, sono fastidiosi. Inizio a riprendere tutti i suoi interventi. Diventiamo amici, compagni di lotta, così scelgo di contribuire alle sue lotte attraverso il mio mezzo, e cioè documentando la sua guerra, le sue battaglie che diventano tante, troppe. Nel gennaio 2007 mi sveglio e sento alla tv dell’arresto dei presunti killer di Gianluca. Corro dai Congiusta, abbraccio tutti, respiro un’aria strana, diversa, quasi di serenità, di sollievo. Da lì in poi il clima si distende, ma Mario non smette di fare battaglie. Allora capisco: la vita di Mario ormai non ha più un significato preciso e il mio documentario prende un’altra piega: non è più una storia sulle sue battaglie, ma sulla sua seconda vita.
Qual è il messaggio de La Guerra di Mario?
VC: La guerra di Mario nasce dalla voglia di capire come si sopravvive a una tragedia. Seguire Mario per quattro anni è stata una lezione di vita incredibile. Capire che da una tragedia può iniziare un altro tipo di esistenza, dedicata a far sì che queste disgrazie non si ripetano. Mario con la sua guerra ha ottenuto dei risultati straordinari, non solo personali, ma anche a livello sociale.
Hai adottato metodi particolari di inquadratura, montaggio, ecc.?
VC: Il mio obiettivo era raccontare le battaglie di Mario annullandomi totalmente, senza interviste, non facendo pesare la presenza della macchina da presa. Infatti ho usato una m.d.p. piccolissima, la qualità del film ha risentito di questa scelta. Ma così facendo spero sia uscita la pura verità, che era l’obiettivo a cui aspiravo. Anche l‘assenza di musiche è stata una scelta prioritaria. Non volevo emozionare con mezzi esterni alla realtà. Ho cercato di usare il mezzo cinematografico in modo “morale” e discreto, infatti Mario lo seguo sempre da dietro.
Il tuo ultimo lavoro, Il paese dei bronzi, è ambientato a Riace, un paese che da qualche anno cerca di sopperire allo spopolamento causato dall’emigrazione e al conseguente impoverimento con una politica di forte accoglienza nei confronti degli immigrati africani e non solo. Cosa ti ha spinto a indagare sul caso di Riace? Ci racconti le tappe del tuo lavoro lì?
VC: Arrivo a Riace nell’aprile 2009. Avevo sentito che stava accadendo qualcosa di strano. Mimmo Lucano, il sindaco, lo conoscevo già, l’avevo sfiorato durante le riprese del mio film precedente, quello sulla lotta di Mario: quest’uomo aveva invitato tutti e 42 i comuni della Locride a costituirsi parte civile nel processo contro i killer del figlio. Mimmo era stato l’unico sindaco a rispondere all’appello. Così me ne innamorai, sapevo di voler fare qualcosa su di lui nel mio prossimo film. Arrivato a Riace, capisco che fare un documentario solo su di lui sarebbe stato riduttivo, vista la rivoluzione a cui stavo assistendo: in Italia stava iniziando la stagione dei respingimenti, qui invece gli si dava un’alternativa di vita. Inizio a fare amicizia coi riacesi e coi migranti. Iniziamo a giocare a calcetto, a seguire le partite nei bar. Nei sei mesi in cui rimango a Riace vedo passare un centinaio tra giornalisti e fotografi da tutto il mondo, e una decina di documentaristi: tutto ciò per via dei respingimenti e anche per le intimidazioni mafiose subite da Mimmo. Restavano alcuni giorni e sparivano. Il mio obiettivo invece è stato chiaro e semplice sin dall’inizio: nessuna intervista, concentrarsi sul presente e non sul passato, fare un doc su Riace intera e non solo sugli immigrati. Forse anche per questo riacesi e immigrati mi hanno accettato più facilmente. Tra di loro prendevano spesso in giro i giornalisti per la ripetitività delle domande che gli facevano. È incredibile la sofferenza dei riacesi di fronte al tema dei bronzi: si sono sentiti defraudati quando glieli hanno portati via. In quasi tutte le case e nei bar ce n’è una foto. Nella scuola li studiano. Mentre Mimmo continua a sostenere la casualità di quel fatto, confrontandolo con la volontà di quest’altro, l’accoglienza, voluta e strutturata volontariamente dai riacesi. Ha ragione lui. Così, nel decidere il titolo, mi sono ritrovato di fronte a un sacco di belle parole, un sacco di belle motivazioni, un sacco di belle cose che ci sono a Riace: invece ho voluto scegliere provocatoriamente proprio questo, per sottolineare ciò che a Riace non c’è, e che invece lo ha reso famoso nel mondo: proprio ciò che non ha...
A proposito dell’esperienza di Riace, so che hai collaborato con Wim Wenders al suo cortometraggio Il volo che, pur essendo un film di finzione, analizza poeticamente lo stesso tema dell’accoglienza. Com’è stato lavorare con Wenders?
VC: Come ciliegina sulla torta, arriva anche Wenders. Non sapevo se essere invidioso o lusingato. D’altronde viene a fare un film sul mio stesso soggetto. Invece è una bella esperienza, molto formativa. I riacesi non sapevano chi fosse, per loro era solo uno dei tanti. Poi lo hanno capito a poco a poco e si sono inorgogliti, giustamente. La mia collaborazione è consistita nell’occuparmi dei bambini immigrati protagonisti, visto che di me già si fidavano. Wenders è stato molto umile, nonostante la fama di cui gode; ha addirittura modificato il copione in progress per far entrare più realtà in un soggetto nato come fiction.
Hai mai partecipato a qualche festival o a qualche concorso di cinema indipendente?
VC: I miei primi due lavori (il documentario sui ragazzi di Locri e il documentario La guerra di Mario) hanno partecipato a festival nazionali e non, ottenendo un buon riscontro, e anche dei premi. Il Paese dei Bronzi è stato in corsa ai David di Donatello, in concorso al festival Docucity di Milano e al ViaEmilia DocFest di Reggio Emilia.
Che ne è stato del tuo progetto su quella che definivi la “vergogna” del Sud Italia, l’autostrada Salerno/Reggio Calabria? Pensi non sia più necessario parlarne?
VC: Tutti i giorni penso che sia necessario parlarne, ma il tempo da dedicare ai miei lavori cinematografici è sempre minore e un doc del genere richiederebbe uno sforzo produttivo enorme, vista l’importanza storica del soggetto. Ma è sempre nella mia lista di cose da fare...
Com’è cambiata la Calabria negli ultimi anni, da quando hai iniziato a lavorarci?
VC: È cambiata in meglio: la crisi economica ha spinto molti di quei cervelli che erano scappati via per studiare o lavorare a tornare in Calabria, e questo è un bene. Perché qui, al Sud in generale, abbiamo migliaia di risorse da sfruttare per poterci vivere e un sacco di settori lavorativi vuoti da riempire. Questo è uno dei motivi che ha spinto anche me a restare.
Cosa fai quando non te ne vai in giro facendo documentari sulla tua terra?
VC: Mi occupo di videoproduzioni, lavoro in uno studio a Locri insieme ad altri due cineasti, tornati anche loro dal Nord (Asimmetrici Videoproduzioni), cercando di campare con quello che sappiamo fare meglio. La videoproduzione nel Sud Italia è ancora abbastanza vergine, un settore da potenziare. E noi stiamo cercando di farlo. Spaziamo dai video matrimoniali, ai videoclip musicali, agli spot pubblicitari, ai booktrailer. Poi nel tempo libero ci dedichiamo al cinema. Collaboriamo spesso con produzioni che vengono da fuori, ad esempio per location e casting.
Cosa prendi e cosa butti del cinema italiano?
VC: Del cinema italiano butto i miliardi spesi per le commedie natalizie e i film giovanili idioti che hanno la capacità, come la tv, di farci regredire mentalmente. Invece mi interessa quel cinema che cerca di raccontarci, che si sforza, senza una lira, di raccontare ogni buco di questo Paese e che ormai, fortunatamente, è diffusissimo.
Pensi che il mondo del cinema così come lo conosciamo oggi possa cambiare e magari migliorare in futuro?
VC: Il cinema è una risorsa preziosissima da tutelare, perché ci offre un punto di vista diverso e meno distratto a differenza degli altri media. Stanno nascendo autori che vogliono raccontare e raccontarsi giorno dopo giorno e questo è un bene per contrastare la moda dei cine-panettoni e delle fiction che servono solo a bloccare i cervelli.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
VC: Non c’è uno in particolare. Vorrei solo, ogni tanto, potermi esprimere col mezzo che mi sono scelto, cioè il cinema.
Ciao a tutti, Hai fatto un ottimo lavoro. Non mancherò di digg e da parte mia suggerire ai miei amici. Sono fiducioso che sarà essere beneficiato da questo sito web. voyance gratuite par email
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