Daniele Ciprì è un regista maturo. Palermo la conosce bene, è la sua città. Assieme a Franco Maresco ha esplorato per decenni un territorio nuovo per il cinema italiano e non solo, portando sullo schermo uomini e storie che a molti hanno fatto storcere il naso. Hanno fatto qualcosa di più che rappresentare l'inferno in terra, hanno puntato l'obiettivo su quella fetta di umanità che i più non vorrebbero neanche vedere. I freaks che tessevano le trame dei loro film o dei magnifici corti di “Cinico Tv” sembrava che facessero più paura dei demoni dell'horror.
Daniele Ciprì è un regista maturo. Palermo la conosce bene, è la sua città. Assieme a Franco Maresco ha esplorato per decenni un territorio nuovo per il cinema italiano e non solo, portando sullo schermo uomini e storie che a molti hanno fatto storcere il naso. Hanno fatto qualcosa di più che rappresentare l'inferno in terra, hanno puntato l'obiettivo su quella fetta di umanità che i più non vorrebbero neanche vedere. I freaks che tessevano le trame dei loro film o dei magnifici corti di “Cinico Tv” sembrava che facessero più paura dei demoni dell'horror. Storie di uomini che tra una battuta e un rutto, tra una grattatina alle parti intime e uno sguardo assente, riuscivano a restituire un'immagine esatta delle sensazioni che si possono provare vivendo in questo mondo disgregato, al di là delle rappresentazioni mediate, ammorbate ed ammorbidite dalla cultura dominante. Era una strana coppia quella formata da Ciprì e Maresco, dotata di un talento traboccante ma anche irritante per un'Italia sempre più stordita dai reality e da una cultura patinata e impaurita dalla possibilità di guardarsi dentro. Non hanno avuto vita facile i due, e la Palermo che rappresentavano era spesso irriconoscibile se non per il dialetto, una città ripresa lateralmente, dalle sue periferie più degradate e spesso eletta a luogo universale, dove l'uomo è solo, spesso con una “panza” così traboccante da renderlo immobile, incapace di guardarsi persino l'ombelico.
A un certo punto la coppia scoppia ed ognuno va per la sua strada. Ciprì presenta a Venezia il suo primo film: “È stato il figlio”, tratto da un romanzo di Roberto Alajmo. Il film viene premiato e distribuito in tutta Italia in molte copie, ma la prima viene presentata a Palermo, città dove la pellicola è ambientata. E in effetti il film merita veramente tanto. La regia è precisa, così come la luce, i movimenti di camera, il ritmo e poi gli attori tutti, da Rori Quattrocchi a Toni Servillo per citarne solo un paio, danno una prova magistrale della loro arte, lasciando gli spettatori entusiasti per quella “poetica dell'annacamento”, del movimento sinuoso e quasi barocco degli interpreti che sembrano reinterpretare la mitica gestualità siciliana in una chiave barocca e fiabesca. La storia infine è solida e ben scritta. Insomma ci sono tutti gli ingredienti perchè il film abbia successo.
Però c'è un però. Il film è ambientato a Palermo ma non è girato a Palermo. Poco importa, direte voi. Sono tanti i film che si girano in altri luoghi rispetto a quelli dove sono ambientati. Basta pensare a “Baharia” di Tornatore girato in Tunisia o al “Federico Barbarossa”, tanto desiderato dalla Lega Nord, girato in Romania. E invece stavolta a qualcuno è importato. Durante la conferenza stampa, i giornalisti del Corriere e dell'Ansa hanno incalzato il regista per sapere come mai il film è stato realizzato con il contributo della “Apulia Film Commission” e girato in Puglia anziché in Sicilia. Inizialmente Ciprì non voleva sollevare una polemica su questo aspetto, ma poi la sceneggiatrice Miriam Rizzo non ha più potuto trattenere il suo sfogo ed ha affermato: “Per oltre un anno abbiamo atteso risposte da Sicilia Film Commission. Ci hanno chiuso le porte in faccia. Palermo non merita il nostro film”. A quel punto anche Ciprì chiarisce: “Qui non avremmo potuto lavorare serenamente. Non volevamo fare la presentazione a Palermo, ma poi abbiamo deciso che era giusto perché la storia è ambientata qui, ed è stato un palermitano a scriverla”. Del resto, bisogna anche dire che persino gran parte del cast è siciliano. Tutto questo non è bastato per la Sicilia Film Commission, che avrebbe il compito di “creare le condizioni per attrarre in Sicilia produzioni cinematografiche, televisive e pubblicitarie italiane e straniere”.
C'è da immaginare che nel palazzo di Via Notarbartolo 9, a Palermo, dove ha sede la SFC non l'abbiano presa bene. Uno smacco non da poco per questo Servizio rimesso in piedi nel 2007 dal Dipartimento regionale Turismo, Sport e Spettacolo della Regione e che dal 2008 gestisce il “Fondo regionale per il cinema e l’audiovisivo”. Dovrebbe funzionare come una calamita la Sicilia Film Commission. Dovrebbe attrarre le produzioni in Sicilia. Invece, quello che è successo, almeno in questo caso, è che ha funzionato sì da calamita, ma in senso respingente. A noi spettatori poco ci cambia, invece in quanto cittadini e contribuenti vien voglia di rispolverare un brano di Renzo Arbore: “Sì, la vita è tutto un film”. In un certo senso, anche la Regione Sicilia è tutto un film. Solo che è un déja vu, un già visto. Niente di nuovo sotto il sole di Palermo. Certe storie hanno il sapore dell'universale, la lentezza della regione è un paradigma che ha anch'esso il sapore della tragedia greca, quando non sconfina nella farsa. Però se si tratta di raccontarle queste storie, è meglio lasciare la parola e la telecamera a professionisti come Ciprì. E ritrovare questa storia “Made in Palermo” in tutto il mondo. Quella storia non è più nostra, appartiene a tutti. Stamattina cercando sulle news di google “ È stato il figlio di Ciprì”, mi compariva in testa il sito americano “Hollywood Reporter” e poi ancora “Variety”, “The Korea Herald”...
Insomma, “È stato il figlio” è qualcosa di più di un film palermitano, molto di più, e lo è nonostante la Sicilia Film Commission sia rimasta lì a guardarsi l'ombelico. Come un personaggio di Cinico Tv.
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