Nato ai margini della provincia lecchese, Roberto Bonfanti esordisce come scrittore nel 2007, dopo alcune esperienze nel mondo della musica indipendente in qualità di redattore del webmagazine Kronic, fondatore dell’etichetta discografica Ilrenonsidiverte e organizzatore di diversi eventi. Il suo primo libro è Tutto passa invano (UNI Service), una raccolta di racconti sui temi della disillusione, dell’amore, dell’amarezza e delle contraddizioni, che caratterizzano i personaggi ispirati alla gente comune. Nel 2009 esce il suo primo romanzo, L’uomo a pedali (Falzea Editore), storia di Sergio, un ciclista ordinario, che al momento di compiere trent’anni decide di ritornare in bicicletta dopo parecchio tempo dal brutto infortunio che ha distrutto tutti i suoi sogni di gloria. A circa un anno di distanza, con il secondo romanzo dal titolo In fondo ai suoi occhi (Falzea Editore), Roberto Bonfanti traccia il ritratto umano, intimo, fragile e profondo di Elisabetta, giovane donna disillusa e concreta. Il suo ultimo lavoro, Suonando pezzi di vetro (Neverlab Libri - Edizioni Del Faro, 2012), è il diario del ritorno sul palco di un giovane musicista dopo un periodo di lontananza dai riflettori, alla ricerca di una stabilità emotiva. Malinconico per indole, testardo per vocazione, sognatore per dna, disilluso per puro caso, incostante e incoerente per necessità, come lui stesso si definisce, Roberto Bonfanti è un narratore diretto, sincero e passionale, dallo stile limpido e avvolgente.
SA: Benvenuto su SuccoAcido, Roberto! Cosa diresti per presentarti ai nostri lettori?
RB: Grazie! Innanzitutto ringrazio te, SuccoAcido e i vostri lettori per lo spazio e l’attenzione che mi state concedendo.
Riguardo alle presentazioni, direi che abbiamo tutto il tempo dell’intervista per conoscerci con calma. Lasciamo un pochino di suspense.
SA: Ho letto dalla tua biografia: “Attraversa inconsapevolmente gli anni ‘80 e ne esce indenne”… e mi viene in mente una canzone degli Afterhours, Non si esce vivi dagli anni ‘80. Come hai fatto a sopravvivere?
RB: Hai colto perfettamente: quella frase voleva essere proprio un richiamo alla canzone degli Afterhours.
In realtà sono nato proprio nel 1980, per cui i miei ricordi di quel decennio sono legati alle scuole elementari, ai cartoni animati, alla bicicletta, al pallone e poco altro. Inoltre sono cresciuto in una piccolissima frazione di un paesino di provincia in cui, quando io ero bambino, le dinamiche sociali erano ancora le stesse dei primi anni ‘60. Forse sono questi i motivi per cui ne sono uscito vivo.
SA: Ci racconti del tuo percorso di formazione fino al tuo approccio alla scrittura?
RB: Giusto per restare in tema di citazioni musicali, hai presente la canzone Scuola di Eugenio Finardi? Ecco: credo che quel brano rappresenti bene quello che è stato il mio percorso di formazione. Ho studiato ragioneria ma in realtà ho sempre cercato, in modo molto spontaneo e inconsapevole, di costruirmi un mio percorso personale completamente indipendente da quello scolastico; un percorso su cui hanno influito moltissimo i dischi che ho ascoltato, oltre ai libri che ho cercato di leggere in quel periodo indipendentemente da ciò che proponeva la pubblica istruzione.
Poi ovviamente, nella vita, tutto ciò che attraversi finisce col lasciarti qualcosa e farti crescere un pochino –anche la scuola, certo-. Per esempio, all’interno del mio percorso credo sia stata fondamentale la collaborazione con Kronic, il web magazine su cui ho scritto per diversi anni e che ha ormai da un po’ di tempo chiuso i battenti.
Riguardo all’approccio alla narrativa: il mio primo tentativo di scrivere un racconto risale a quando avevo circa sette anni, per cui la scrittura è una passione che ho sempre coltivato anche se, almeno fino a qualche anno fa, con molta discontinuità e senza nessuna reale aspirazione da scrittore.
SA: Quali autori consideri i tuoi punti di riferimento e perché?
RB: Mi ha sempre affascinato l’abilità di Georges Simenon nello scavare l’animo di personaggi difficili e controversi: il mio riferimento principale credo resti lui, quanto meno nella sua produzione “non gialla”.
Oltre a lui, mi risulta impossibile non citare John Fante (non solo per la curiosa assonanza col mio cognome), di cui ammiro la spontaneità e le doti di narratore puro.
Poi chiaramente ci sono tanti altri autori che adoro e che mi hanno in qualche modo segnato: potrei citare Heinrich Böll, Milan Kundera, Sandor Marai, oppure Henry Miller, tanto per fare i nomi più significativi.
SA: Hai esordito con una raccolta di racconti, Tutto passa invano (UNI Service, 2007), e sei già al tuo terzo romanzo. Ci daresti la tua definizione dei due generi letterari, tracciando le tappe dell’itinerario che ti ha condotto dalla prosa breve alla narrazione più estesa?
RB: Il racconto dà modo di fotografare in poche righe una sensazione o un piccolo frammento di vita: rispetto al romanzo ha forse una forza evocativa potenzialmente maggiore, ma il romanzo ha una struttura più complessa che lascia molta più libertà di esplorare con più profondità le svariate sfaccettature dei personaggi e della storia che si sta raccontando.
Personalmente, sia come lettore che come scrittore, oggi mi trovo più a mio agio con il romanzo. Il racconto è stata una forma di espressione che ho usato parecchio fino all’incontro con Falzea, quando mi capitava di scrivere solamente per l’esigenza di mettere su carta alcune sensazioni nel modo più diretto e immediato possibile. Una volta presa la decisione di dedicarmi alla scrittura in modo più serio, è stato naturale il desiderio di provare a confrontarmi con il romanzo.
SA: E sul tuo passaggio dall’UNI Service a Falzea Editore?
RB: Anche questo è stato un passaggio estremamente naturale: Tutto passa invano è un lavoro nato dalla semplice esigenza, in un periodo di crisi personale e grandi cambiamenti, di fare il punto della situazione su me stesso fermando definitivamente su carta alcuni dei racconti scritti nei momenti più disparati dei sette anni precedenti. Vista la mia urgenza personale di vedere il libro stampato e la totale assenza di velleità commerciali, all’epoca decisi di affidarmi alla UNI Service, che è una realtà che lavora “on demand”.
In quello stesso periodo mi è capitato di conoscere, per puro caso, tramite amicizie comuni, uno dei “boss” di Falzea Editore: è stato un incontro fortuito al di fuori dei ruoli di scrittore ed editore, però è stato lui, dopo aver letto i miei racconti, a tornare a cercarmi, spronandomi ad impegnarmi nella scrittura con maggiore continuità e chiedendomi di fargli avere gli scritti su cui avrei lavorato in seguito. Così, grazie anche ai consigli e agli incoraggiamenti di Falzea, sono nati L’uomo a pedali e In fondo ai suoi occhi.
SA: Nel romanzo L’uomo a pedali (Falzea Editore, 2009) ritorna il tema del ciclismo come metafora della vita, che avevi affrontato in Giocando a vivere, l’ultimo di Tutto passa invano. La scelta di chiudere la raccolta con quel racconto era legata, in qualche modo, all’intento di narrare la storia di Sergio nella tua opera successiva?
RB: No. La tua osservazione è corretta ma il processo è stato un altro.
Fra Tutto passa invano e L’uomo a pedali credo ci siano parecchi punti di contatto: L’uomo a pedali, in fondo, nasce anche dall’esigenza di riprendere molti dei temi accennati in maniera molto grezza in Tutto passa invano e provare ad affrontarli in modo più maturo e compiuto all’interno di un vero romanzo.
Personalmente ho sempre amato molto il ciclismo e l’ho sempre considerato la perfetta metafora della vita, per cui è stato naturale riprendere questo elemento, che in Tutto passa invano era stato solo sfiorato vagamente, e farlo diventare una colonna portante del romanzo successivo.
SA: Com’è nata e come si è sviluppata l’idea del tuo secondo romanzo, In fondo ai suoi occhi (Falzea Editore, 2010)?
RB: L’idea mi è praticamente “piovuta addosso” in una serata, nel periodo in cui stavo scrivendo L’uomo a pedali. È una storia che è praticamente nata da sola: la vera sfida era riuscire a raccontarla e trovare il modo giusto per farlo, dosando le dosi industriali di rabbia e di tenerezza che generava in me. A livello emotivo è una storia che “sentivo” molto. Per questo, prima di iniziare a metterla su carta, ho dovuto aspettare il momento giusto e, se la prima stesura è nata in pochissimo tempo, le revisioni successive hanno richiesto parecchio impegno per riuscire a mettere bene a fuoco ogni singolo dettaglio e dosare al meglio le emozioni che doveva contenere.
È un libro che ruota fondamentalmente attorno al personaggio di Elisabetta: una protagonista dalla personalità piuttosto complessa, ricca di sfaccettature e di contraddizioni. L’intento principale era proprio quello di cercare di scavare il più a fondo possibile nell’animo di questa ragazza, facendone una sorta di ritratto umano.
SA: Dai tuoi scritti emerge una visione disillusa della realtà e delle relazioni umane… “inutile”, “trascurabile”, “insignificante” sono gli aggettivi che adoperi frequentemente… “The Gods forgot they’ve made me/ so I forgot them to/ I listen to the shadows/ I play among their graves./ My heart is never broken/ my patience never tried/ I got seven days to live my life/ or seven ways to die” cantava Bowie in Seven. Dal disincanto scaturisce una nuova e costruttiva consapevolezza?
RB: Oddio... visto il preambolo, qualche lettore distratto potrebbe prendermi per un nichilista. Cosa che mi auguro di non essere assolutamente.
Premesso questo, sono perfettamente d’accordo con quanto dici: nei miei personaggi c’è una bella dose di disillusione. Ma io sono convinto che la disillusione sia, in realtà, una forma molto profonda di romanticismo. Pensa a Sergio, il protagonista de L’uomo a pedali: è un personaggio segnato profondamente dal disincanto, ma resta fondamentalmente un romantico; uno che, a tratti, sembra vivere la quotidianità come se nulla avesse davvero importanza ma, al tempo stesso, si lascia commuovere, per esempio, dal ricordo dell’amore sfiorato quando aveva vent’anni. Sergio credo sia il perfetto esempio del romantico disilluso e, almeno in questo, penso sia anche il personaggio che più mi somiglia.
Lasciando per un attimo da parte il romanticismo, mi piace molto la tua considerazione sul fatto che dal disincanto possa scaturire una nuova consapevolezza: penso sia così, almeno in teoria. In fondo anche la bolla di serenità di Sergio nasce dalla consapevolezza che, come dice lui, “vincere o perdere è solo un dettaglio assolutamente insignificante” e che, preso atto di questo, può godersi la sua pedalata metro dopo metro, assaporandone le sensazioni (sì, anche le sensazioni “inutili” o passeggere) per ciò che sono realmente, senza bisogno di inseguire inutili illusioni.
Certo: in realtà le cose non sono mai così facili, come d’altra parte testimonia anche la stessa storia di Sergio, perché comunque ci si ritrova sempre ad essere meno disillusi di quanto si creda (e più romantici). Ma forse può essere uno spunto di riflessione da cui partire.
SA: Nei tuoi personaggi rivedo la “gente comune”, i “passanti”, i “precari” che attraversano i giorni tra mancanze, abbandoni, alibi e una spinta interiore a cercare qualcos’altro, che spesso non è facile o non è necessario definire. Dai protagonisti senza nome di Tutto passa invano a Sergio, fino ad Elisabetta, nella costruzione di queste figure quanto influiscono gli incontri e le conversazioni della tua vita quotidiana?
RB: Mi piacerebbe rispondere che non influiscono per niente, ma sarebbe una balla clamorosa. Credo che dietro ad ogni pagina ci sia, in qualche modo, qualcosa di vissuto, anche se, chiaramente, la narrazione ti porta a rimescolare le carte, stravolgere i contesti o dare altre sfumature ai colori. Ma credo che sia naturale riversare in ciò che si scrive molto di se stessi, del proprio mondo e del proprio vissuto. Se così non fosse, la scrittura rischierebbe di diventare un banale esercizio di stile.
SA: “Antieroi” è la definizione giusta per i protagonisti delle tue storie? Se ritieni di sì, potresti spiegarci che cosa intendi per “eroe”?
RB: Tornando al giochino delle citazioni musicali, potrei dirti che Guccini cantava: “gli eroi son sempre giovani e belli”. Forse per questo mi sono sempre stati antipatici e, fin da bambino, ho trovato più interessante il lupo cattivo rispetto al principe azzurro.
Scherzi a parte, penso che il concetto stesso di eroe sia frutto dell’ipocrisia di voler dividere il mondo in buoni e cattivi: per questo lo trovo falso e troppo facilmente strumentalizzabile.
Mi hanno sempre affascinato tantissimo i personaggi delle canzoni di De André e dei romanzi di Simenon. Personaggi che non sono mai né buoni né cattivi: sono semplicemente vivi e, in quanto tali, si arrogano il diritto di avere dei difetti, compiere degli errori e sporcarsi le mani. Mi piace pensare che anche i personaggi dei miei libri siano così. Mi sentirei un idiota a lodare le virtù di un personaggio asettico e irreale senza macchie e senza paure: preferisco scavare nella complessità di personaggi estremamente umani, con i loro dubbi, i loro sbagli e le loro insicurezze. In questo senso, sì, la definizione “antieroi” mi piace.
SA: La provincia, Roma, Milano e Londra: ci parleresti delle contrapposizioni tra le realtà in cui si muovono i tuoi personaggi?
RB: Certo! Soprattutto In fondo ai suoi occhi è un romanzo che vive molto su questi contrasti: da un lato c’è la morbosità pettegola della provincia in cui tutti sembrano sapere tutto di tutti, e dall’altro c’è il gelo metropolitano in cui non conosci nemmeno il nome del tuo vicino di pianerottolo; in un angolo c’è il caos schizofrenico e asettico di Milano con i suoi aperitivi infiniti e la sua scarsa poesia, e nell’altro quello più accondiscendente e solare di Roma, che a tratti diventa accogliente e rassicurante; da qualche altra parte, infine, c’è poi l’illusione di un “altrove” sempre migliore: forse a Londra o forse chissà dove.
Elisabetta rimbalza da un contesto all’altro e vive in modo molto personale il rapporto con ognuno di questi luoghi. Anche se poi, a ben vedere, ci si rende conto che certe differenze non sono poi nette come le si percepisce: anche la grande città, a lungo andare, finisce col rivelare lo stesso perbenismo bigotto della provincia, per esempio. Per cui forse il problema reale non sono solo i luoghi…
SA: Ritrovi abitudini, spazi, “riti” ogni volta che cominci a scrivere?
RB: No, credo di non avere nessun particolare rito. O, meglio, ogni libro -o addirittura ogni fase- ha i suoi piccolissimi gesti che mi aiutano ad entrare nel giusto stato mentale o a risvegliare le giuste sensazioni. In generale, comunque, mi viene più naturale scrivere di notte, quando il mondo cala nel silenzio, le ansie della giornata si stemperano, e non ci sono troppe distrazioni esterne.
SA: Come procedi nel lavoro di revisione? A che cosa miri, esattamente?
RB: Dopo tre libri pubblicati, ho imparato che la revisione è la parte più importante del lavoro e forse anche la più divertente. Miro prima di tutto a capire cosa ho realmente scritto, a cogliere tutte le sensazioni che sono rimaste incastrate fra le parole e a dare a ognuna di essa la giusta luce per far sì che emerga il più nitidamente possibile -per me stesso e per i futuri lettori- dal magma convulso di pensieri classico delle prime stesure. Sotto molti aspetti, la revisione di un mio scritto, per me, si traduce in una sorta di “auto-psicoterapia”.
Nel caso di In fondo ai suoi occhi, poi, ho mirato molto ad “asciugare” la trama, quasi a ridurla ai minimi termini. Su quel libro ho lavorato “per sottrazione”, cercando di togliere tutto il superfluo per far sì che tutte le luci puntassero sull’animo di Elisabetta.
SA: La tua playlist musicale e cinematografica?
RB: Musicalmente dovrei citare l’opera omnia di De André e tutto ciò che è uscito dalla penna di Giovanni Lindo Ferretti nelle sue diverse incarnazioni. Accanto a loro metterei sicuramente molti cantautori storici (su tutti De Gregori, Ciampi, Gaber e Vecchioni) e molto rock italiano anni ‘90 (dagli Afterhours agli Estra o i Massimo Volume). Inoltre, fra gli artisti più “recenti”, stimo molto i Valentina Dorme, Le Luci Della Centrale Elettrica, Cesare Basile e Pino Marino, tanto per fare qualche nome.
In fatto di cinema sono più onnivoro e forse meno selettivo. In ogni caso ammiro molto i grandi registi italiani contemporanei, da Tornatore e Salvatores ad Avati o Rubini, e ho sempre avuto un debole particolare per Troisi. Oltre a questi, amo molto l’arguzia di Woody Allen e mi affascina la delicatezza del cinema francese recente. Infine, un film che mi ha toccato molto e che mi capita spesso di citare è “2046” di Wong Kar-wai.
SA: E se da una delle tue opere fosse tratto un film?
RB: Sarebbe molto bello, certo! Anche per la curiosità di vedere un mio lavoro rielaborato da un’altra mente. Se posso spararla grossa: vedrei bene In fondo ai suoi occhi o L’uomo a pedali nelle mani di un regista come Pupi Avati, per esempio.
SA: A novembre è uscito Suonando pezzi di vetro, pubblicato dal progetto Neverlab Libri con il supporto di Edizioni Del Faro. Qual è la musica del tuo ultimo romanzo?
RB: La musica del romanzo è costituita soprattutto dalle canzoni che il protagonista scrive e suona con la sua band. Canzoni in cui nel corso di tutta la sua vita ha cercato di condensare i suoi pensieri più intimi, le sue nostalgie più profonde e tutte le cose con cui, pagina dopo pagina, si ritrova a fare nuovamente i conti dopo essersi illuso, per un certo periodo, di essere pronto a lasciarsele definitivamente alle spalle.
Poi, certo, sullo sfondo ci sono anche dei richiami a canzoni reali che pescano qua e là lungo gli ultimi quarant’anni di musica italiana, da Francesco De Gregori ai Valentina Dorme passando per i C.S.I. o i Massimo Volume.
SA: Hai rinnovato la veste grafica del tuo blog. Cosa significano quelle tre stelline sullo sfondo?
RB: Quelle tre stelline, che porto anche tatuate sul mio polso destro, sono un simbolo personale che mi lega a una persona per me molto importante che ha segnato profondamente la mia vita. È uno dei simboli che spesso ritornano, in modo più o meno velato, anche nella mia scrittura e finiscono inevitabilmente con l’influenzarla. E questo mi fa riflettere sul fatto che ho sempre considerato i significati personali che attribuisco alle cose che faccio molto più importanti di tutto quanto il resto. In un certo senso non sono mai riuscito a staccarmi da quella che Vecchioni definiva “la confusione fra la vita e la poesia” e da un approccio profondamente personale alla scrittura.
SA: Progetti futuri?
RB: Prossimamente, a chiusura della promozione di Suonando pezzi di vetro, verrà pubblicata gratuitamente on-line, esclusivamente in formato elettronico, una mini raccolta di racconti in cui alcuni amici scrittori si sono divertiti a creare dei piccoli “spin-off” del romanzo, dando voce ad alcuni personaggi secondari ed arricchendo la storia di nuove sfumature.
Più in generale, invece, non saprei proprio: ho nel cassetto un nuovo romanzo, scritto di getto in un tempo brevissimo, ma lo reputo troppo personale e denso per pubblicarlo. La sensazione che ho in questo momento è quella di avere, con i romanzi scritti finora, espresso tutto ciò che avevo da dire per cui, quando tornerò a posare la penna sul foglio, sarà per forza di cose per comunicare qualcosa di completamente diverso e nuovo. Ma ovviamente non so quando e come sarà. Vedremo...
Nel frattempo sto portando avanti il progetto “Nella mia ora di libertà”, attraverso il quale racconto la storia della canzone d’autore italiana ai detenuti del carcere di San Vittore: è un progetto che umanamente mi sta dando parecchio e di cui sono particolarmente contento.
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