SA: Da dove arriva la tua passione per il mondo del Cinema e cosa ti ha spinto dietro la macchina da presa?
VC: Ero a Rimini nel 2003, studiavo economia lì, e vagando per la città mi imbattei in alcuni manifesti su cui vi era scritto "Retrospettiva su Fellini". Allora decisi di entrare e iniziai a vedere i suoi film, spinto solo dalla curiosità. Rimini è la città natale di Fellini. Dai suoi film capisco che esiste anche un cinema diverso dal solo cinema di intrattenimento. Da qui nasce la mia volontà di stare dietro la macchina da presa, in veste quasi di narratore, e l’esigenza di raccontare ciò che mi circonda da un punto di vista diverso da quello dei media tradizionali.
SA: Quando ti sei reso conto che potevi essere il narratore e non lo spettatore?
VC: C'è stato un momento in cui ho iniziato a capire che avevo voglia di comunicare, di dire qualcosa, di raccontare me stesso e ciò che mi circondava, ma non nei modi consueti, bensì in modo diverso. Allora, resomi conto che il mezzo cinematografico poteva essere usato anche per questo, ho cercato di capire come fare vedendo film di registi che attraverso il loro cinema hanno detto tutto quello che volevano dire. Per fare tutto ciò scopro che esiste un genere di cinema, il documentario, che ti mette in stretto rapporto con lo spettatore, è piu diretto. Così il mio primo lavoro è stato un documentario su quei ragazzi ribellatisi all'indomani dell'omicidio Fortugno, a Locri. Il contesto in cui sono cresciuto, la Locride, non l'ho mai accettato: le regole non scritte, la mafia, la mentalità. Con questo mezzo sono riuscito a sfogare ciò che non mi andava, raccontando le negatività della mia terra in modo schietto e non artificiale.
SA: Pensi che il cinema sia un mezzo fine a se stesso, almeno che lo possa essere? Che rapporto hai con l'estetica? Che valore dai alle immagini?
VC: Il cinema ha le potenzialità di accostarsi e sostituire i media tradizionali con la loro fugacità e superficialità.
L’estetica, purtroppo, è l’ultima cosa che mi preoccupa: quando giro mi concentro al 100% sulla situazione che sto “guardando”, sul significato della scena, e così facendo non mi preoccupo molto sul come e da dove riprenderla. Mi interessa l’efficacia delle immagini che sto immortalando.
SA: Raccontare la Calabria è una scelta o una necessità?
VC: Raccontare la Calabria nasce dall’esigenza di sfogare le mie frustrazioni che ho nei confronti di ciò che mi circonda, le negatività che mi hanno fatto e mi fanno soffrire vivendo qui da 27 anni.
SA: L'arte può modificare la società? In tal senso la bellezza, dunque il valore delle immagini, è salvifica, o almeno può migliorare l'uomo e la società?
VC: L’arte è decisiva per chi ha la disponibilità interiore di recepirla e fruirla, cioè una piccolissima parte della società. Le immagini ormai hanno perso valore: tutto è immagine. La tv con le sue immagini riciclate e standard ha la capacità di bloccare, anzi di far regredire il cervello. È difficile trovare le immagini giuste, quelle che potrebbero salvare la società, e chi si propone di cercarle e di proporle andrebbe tutelato, protetto e beatificato.
SA: Il tuo documentario, quello sicuramente più rappresentativo, "La Guerra di Mario", come nasce e perché?
VC: Era il 2006, stavo girando il documentario sui ragazzi di Locri. Durante le riunioni mi accorgevo che spesso era presente un uomo, un 60enne, in mezzo a una decina di 16enni. Lo conoscevo di vista, sapevo della storia di Gianluca: quando è stato ucciso in paese siamo rimasti tutti di merda; era proprio sotto gli occhi di tutti, era conosciutissimo, un esempio di positività. Questo 60enne in mezzo ai ragazzi mi faceva un certo effetto. Abbiamo iniziato a frequentarci. Ho iniziato a conoscerlo , dal "voi" sono passato al "tu", scopro che era compagno di scuola di mio padre. Inizio a seguirlo nei suoi interventi pubblici, noto la rabbia che c’è nelle sue parole durante le conferenze antimafia. I suoi discorsi sono diversi, non sono standard, sono fastidiosi. Inizio a riprendere tutti i suoi interventi. Diventiamo amici, compagni di lotta, così scelgo di contribuire alle sue lotte attraverso il mio mezzo, e cioè documentare la sua guerra, le sue battaglie che diventano tante, troppe. Nel gennaio 2007 mi sveglio e sento alla tv dell’arresto dei presunti killer di Gianluca. Corro dai Congiusta, abbraccio tutti, respiro un’aria strana, diversa, quasi di serenità, di sollievo. Da lì in poi il clima si distende, ma Mario non smette di fare battaglie. Allora capisco: la vita di Mario ormai non ha più un significato preciso e il mio documentario prende un’altra piega: non è più una storia sulle sue battaglie, ma sulla sua seconda vita.
SA: Quale messaggio cerchi di far passare con il documentario "La Guerra di Mario"?
VC: La guerra di Mario nasce dalla voglia di capire come si sopravvive ad una tragedia. Seguire Mario per 4 anni è stata una lezione di vita incredibile. Capire che da una tragedia può iniziare un altro tipo di esistenza, dedicata a far sì che queste disgrazie non si ripetano. Mario con la sua guerra ha ottenuto dei risultati straordinari, non solo personali, ma anche a livello sociale.
SA: Per il sopracitato documentario hai adottato particolari metodi di inquadratura, montaggio, ecc.?
VC: Il mio obiettivo era raccontare le battaglie di Mario annullandomi totalmente, senza interviste, non facendo pesare la presenza della macchina da presa. Infatti ho usato una mdp piccolissima, e di questo ne ha risentito la qualità del film. Ma così facendo spero sia uscita la pura verità, che era l'obiettivo a cui aspiravo. Anche l'assenza di musiche è stata una scelta prioritaria. Non volevo emozionare con mezzi non facenti parte della realtà.
Ho cercato di usare il mezzo cinematografico in modo "morale" e discreto, infatti Mario lo seguo sempre da dietro.
SA: Nella tua carriera, secondo te, quali sono i progetti degni di nota a cui hai partecipato e che dovremmo menzionare in questa intervista?
VC: I miei 3 documentari sulla Locride credo che mi abbiano aperto gli occhi sulla realtà in cui vivo, esportando ciò che i media tradizionali non riescono a comunicare o non vogliono, e cioè la positività della mia zona che risponde, reagendo, allo schifo che esiste. Il mio ultimo lavoro "Il Paese dei Bronzi" parla di un paesino della Locride che, tra intimidazioni mafiose, abusivismo, ecc., cerca di rinascere attraverso l'accoglienza degli immigrati, opponendosi contemporaneamente a questi soprusi. Sono realtà da far conoscere.
SA: Hai mai partecipato a qualche Festival o a qualche concorso per il Cinema Indipendente?
VC: I miei primi due lavori hanno partecipato a festival nazionali e non, ottenendo un buon riscontro, e anche dei premi. Il terzo lo sto mandando in selezione nei festival proprio in questo periodo.
SA: Stai lavorando a nuovi progetti?
VC: Ho appena finito di montare un documentario su Riace, un paesino calabrese spopolato per l’emigrazione e ripopolato grazie agli immigrati. E sto preparando un documentario sulla vergogna del Sud Italia: la Salerno/Reggio Calabria.
SA: Cosa prendi e cosa butti del cinema italiano?
VC: Del cinema italiano butto i miliardi spesi per le commedie natalizie e i film giovanili idioti che hanno la capacità, come la tv, di farci regredire mentalmente. Invece mi interessa quel cinema che cerca di raccontarci, che si sforza, senza una lira, di raccontare ogni buco di questo paese, e che ormai, fortunatamente è diffusissimo.
SA: Pensi che il mondo del Cinema così come lo conosciamo oggi possa cambiare e magari migliorare in futuro?
VC: Il cinema è una risorsa preziosissima da tutelare, perché rappresenta un punto di vista diverso e meno distratto a differenza degli altri media. Stanno nascendo autori che vogliono raccontare e raccontarsi giorno dopo giorno e questo è un bene per contrastare la moda dei cinepanettoni e delle fiction che servono solo a bloccare i cervelli.
SA: Grazie e a presto Vincenzo, con l'augurio che il tuo cinema possa aiutare la Calabria.