Videocracy was concieved out of the impossibility to "explain" Silvio Berlusconi. Not quite a film aimed to the Italian audience, Videocracy has made it its purpose to show the international viewers how Chomsky's postulate about mass media as a "factory of consensus" has become a rather defining tautology for the contemporary Italian society.
Videocracy a été imaginé dans l'impossibilité d' "expliquer" Silvio Berlusconi et pas seulement à l'attention du public italien. Videocracy a choisi de montrer aux spectateurs internationaux comment le postulat de Chomsky à propos des médias de masse alors comparés à une "usine de consensus" est devenu une tautologie pour la société contemporaine italienne.
Videocracy
non analizza il perché e il percome di Berlusconi, non indaga le origini del potere finanziario di Mediaset, tanto per fare un esempio. Videocracy è altro. E’ un film sull’immagine, non sul contenuto, ovvero sul Berlusconi significante e non sul Berlusconi significato.
Già negli anni 70, Pasolini aveva dichiarato di non conoscere nulla di più feroce della banalissima televisione. “Il video è una terribile gabbia – diceva – che tiene prigioniera dell'opinione pubblica, servilmente servita per ottenere il totale servilismo, l'intera classe dirigente italiana.” E quel che è accaduto poi con Rete 4, l’editto bulgaro e le nomine dei vertici della RAI ci è tristemente noto.
Eppure, nonostante l’apparenza, Videocracy non è un film di denuncia in senso stretto, né vuole essere un documentario d’inchiesta. Non è graffiante come Viva Zapatero di Sabina Guzzanti o inquisitorio come “Sua Maestà” Silvio Berlusconi di Stephane Bentura. Non svela e non rivela nulla, così come non è un film che pone domande. Paradossalmente, non è un film contro Berlusconi, semplicemente perché non è un film su Berlusconi, nonostante in certi momenti si ponga come tale. Del resto come diceva anche Moretti ne Il Caimano: “Un film su Berlusconi?! No! Si sa già tutto”.
Videocracy non analizza il perché e il percome di Berlusconi, non indaga le origini del potere finanziario di Mediaset, tanto per fare un esempio. Videocracy è altro. E’ un film sull’immagine, non sul contenuto, ovvero sul Berlusconi significante e non sul Berlusconi significato. Craxi, Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano non figurano neppure come comparse mentre la Carfagna viene citata quasi en passant a riprova di come la passività televisiva di una valletta diventa il requisito ideale per promuovere “l’attività” politica, dimostrazione questa di quanto sia demagogico il concetto di meritocrazia sbandierato dalla Gelmini & Co.
No, le star di Videocracy sono Fabrizio Corona, Lele Mora, Marella e Ricky. Ma se pure Livia Turco e gli ospiti di Tetris professavano e rivendicavano il loro diritto all’ignoranza sul personaggio Corona (così come Daniela Santanchè che pure è socia di Briatore proprietario del Billionaire) allora dove risiede l’interesse di un’operazione quale Videocracy? Proprio nella scelta di rivolgere la telecamera su quelle che sono comparse e/o celebrità, nei loro ruoli intercambiabili. E qui viene allora da ripensare alle parole di Gaber: “Ciò che mi preoccupa non è Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me.” Ed è questo il punto di forza di Videocracy perché questo è un film che mette in scena quello che Pier Paolo Pasolini definiva “il tipo umano piccolo borghese italiano”.
“Le veline sono showgirls della televisione – spiega Erik Gandini al pubblico svedese e inglese (la BBC ha coprodotto il film) –. Non gli è permesso parlare. Il loro posto è accanto al conduttore, messe in quella che si chiama "la posizione della velina". Ad assumere questa posizione di buon grado è il “piccolo borghese italiano” di oggi. Basta apparire, recita non a caso, il sottotitolo del film.
Come argomenta Zygmunt Bauman, con un modello liquido della società come quello attuale, siamo passati da un sistema panottico (pochi che controllano molti) a uno sinottico (molti che controllano pochi). E il soggetto privilegiato di questo “controllo” sono le celebrità.
In altre parole, siamo passati dal grande fratello della distopia di George Orwell a un altro tipo di Grande Fratello, quello del programma sindacato in Italia da Canale 5. La regola di base è quella seduttiva del desiderio, di un desidero però che si deve presentare come realizzabile. Lo spazio dell’agire pubblico, luogo per eccellenza della politica, non viene più conculcato da una forza che se ne appropria inglobandolo, come nei totalitarismi fascisti e comunisti, ma svuotato del significato di sfera degli interessi comuni per essere occupato da problemi privati di figure pubbliche.
Aprendo la propria camera da letto alle videocamere di Erik Gandini, Lele Mora, rende pubblico il proprio privato con un candore disarmante. E così, senza alcuna reticenza, mostra il suo videofonino dal quale compaiono vari simboli ed inni fascisti quali Faccetta Nera, svastiche e croci celtiche. E allora, se un tempo era la Casa della Libertà a querelare il “nemico” che paragonava Berlusconi a Mussolini, sono ora gli stessi amici di Berlusconi a paragonarlo a Mussolini senza neppure porsi il problema di quanto questo possa essere politicamente problematico. Ovvero, il problema non sussiste più. Il pensiero politico di Fabrizio Corona invece si riduce a un mero discorso di quattrini. “Io prendo dai ricchi per dare a me stesso come un moderno Robin Hood”. E ancora: “Non vedo la gente, vedo i soldi”. Corona, del resto, è un personaggio per il quale non esiste alcuna separazione fra pubblico e privato dal momento che registra e diffonde lui stesso le immagini del proprio divorzio. In Videocracy poi si compiace nel farsi riprendere non solo mentre conta i suoi quattrini sdraiato sul letto in mutande, ma anche mentre si lava sotto la doccia, e mentre si pettina nudo davanti allo specchio. In ultima istanza però, Erik Gandini rivolge questo specchio allo spettatore stesso, svelando quello che è il Berlusconi in tutti noi incarnato nella figura di Ricky, un giovane aspirante al ruolo di personaggio televisivo.
Berlusconi, dal canto suo, continua a ribadire la sua teoria del complotto e del giornalismo deviato. “Quanto alla RAI – ha dichiarato in una recente intervista radiofonica –, ho avuto modo di dire quello che pensano la maggioranza degli italiani e cioè che è inaccettabile che la televisione pubblica che è pagata con i soldi di tutti, sia l’unica TV al mondo a essere sempre contro il governo quando al governo ci siamo noi.” Indipendentemente da quella che sarà l’accoglienza del pubblico italiano, Videocracy è un film che ha già vinto almeno una delle sue scommesse e questo solo a partire dal trailer, perché la censura del trailer sia da parte di Mediaset che della Rai sancisce, inequivocabilmente, quella che di fatto è la reintroduzione ufficiale delle veline nell’informazione italiana. Veline in questo caso intese nel gergo giornalistico di un tempo, in cui il termine indicava un mezzo di controllo del fascismo sulla stampa consistente appunto in fogli di carta velina con tutte le disposizioni obbligatorie da seguire. Già Gasparri aveva giustificato alla Guzzanti la soppressione di Raiot, un programma di satira, in virtù della mancanza di un contraddittorio all’interno dello stesso. Ora la RAI adduce la medesima giustificazione alla censura di un trailer.
Quarant’anni fa, Pasolini non vedeva alcun motivo di ottimismo. “Il vero fascismo è questo potere della società dei consumi che sta distruggendo l'Italia e questa cosa è avvenuta così rapidamente che non ce ne siamo accorti e ora guardandoci attorno ci accorgiamo che non c'è più niente da fare.”
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