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Writing - Poetry & Tale's Room - Article | by SuccoAcido in Writing - Poetry & Tale's Room on 01/09/2003 - Comments (0)
 
 
 
La cripta e i pupi

Erano stati creati per vivere da morti.

 
 

Durante una visita a Palermo due cose hanno colpito la mia attenzione, ed a distanza di tempo l’una dall’altra assai ravvicinata, come può accadere a chi in una sola giornata si trovi costretto a tappe turistiche assai veloci. Forse, proprio la contiguità temporale ha fatto sì che questi due eventi si imprimessero per analogia nello spazio della mia mente.

Per prima cosa sono rimasto colpito dai Pupi. Fuori della Cattedrale, sulla via, ce n’erano molti appesi nei negozi, ed alcuni anche molto grandi. Vederli così inanimati, come souvenirs turistici, mi ha fatto pensare che un tempo quei Pupi, quando non ce ne erano tanti, quei pochi Orlando, Rinaldo, Angelica, recitavano in teatro. E quei pochi che c’erano, erano - se così si può dire - tutti impiegati a svolgere una vita che, seppure fittizia o virtuale, era una vita che si animava. Ogni Puparo poteva sì avere due belle Angeliche o due Orlandi ma erano in sostituzione se, per un malaugurato incidente, un titolare si fosse rotto una gamba o l’elmo. Un po' come accade nella pratica dello spettacolo, dove un sostituto può subentrare a salvare il botteghino.

Quei Pupi, invece, erano lì riprodotti in serie in un numero non quantificabile, e nessuno di loro avrebbe mai potuto recitare in un teatro la propria storia, il mito dal quale erano nati e creati in seguito da mani artigiane.

Pendevano ormai dalle pareti, sostenuti da fili, più inanimati della stessa condizione di legno alla quale erano legati. Avevano un’aria alquanto spettrale, dimessa, avvilita e con una punta di voglia di vendicarsi che circolava esile dalle loro articolazioni cadenti.

Erano stati creati per vivere da morti.

Sì, forse avrebbero potuto rallegrare con qualche piroetta un pomeriggio di bambini da tenere buoni con il teatrino. Ed avrebbero subìto, a causa dell’ignoranza infantile delle gesta dei Paladini, uno slittamento di identità. Sarebbero divenuti chissà quale strambo personaggio della fantasia magico-macabra e guerresca che i bambini avrebbero dato loro. E così, non sarebbero più stati doppiamente né i Rinaldi né le Angeliche. I Pupi che ancora esistono e che fanno parte degli spettacoli che ancora si allestiscono, non sono a loro uguali, hanno una vita curata, ben riposta dopo ogni spettacolo. Loro invece erano nati sfortunati, vinti, derelitti, esposti al sole al freddo alla pioggia. Mostravano quella vita che non avevano più, che non avevano mai avuto e che mai avrebbero avuto.

Eppure, per assurdo, se un giorno il vero teatro dei Pupi dovesse scomparire del tutto, questi Pupi svirilizzati da salotto o da cantina, continuerebbero ad essere prodotti. Proprio in virtù che né le storie dei Paladini né i teatri che le rappresentavano esisteranno più.

Loro, così, erano a testimoniare neanche più la memoria di se stessi — che non lo erano mai stati — ma la memoria di altro al quale erano apparentati, attraverso una raffazzonata forma. L’industria, anche se artigiana, li voleva e li avrebbe voluti riprodurre ancora più inanimati, ancora più vuoti, ancora più cadenti, e sospesi ai fili del loro essere nati morti.

A Palermo, ci sono degli altri fili, dai quali pendono dei morti.

Ed anche questi, se si vuole concepirli in chiave religiosa, nati morti o nati per morire.

Mi riferisco alla famosa Cripta dei Cappuccini. La cripta è famosa poiché ospita, appesi alle sue pareti, i cadaveri imbalsamati dei Frati Cappuccini dal 1500 circa, anno della prima imbalsamazione, fino ai nostri giorni. Non ci sono soltanto Cappuccini ma anche donne e uomini che ebbero la possibilità di farsi imbalsamare e perlopiù dagli inizi dell’800 in poi.

Poiché il sistema di imbalsamazione era alquanto rudimentale o per sistemi forti, si possono ben bene osservare i mutamenti che il tempo continua a produrre sui loro corpi, passati nella calce o in altre sostanze. Pezzi di pelle che si sfaldano dalle ossa o bocche che si piegano in ghigni su denti inesistenti, capelli che stoppacciosamente pendono sulle orbite cave degli occhi. Ognuno di questi veri cadaveri, attaccati per i loro vestiti d’epoca o messi in dei sacchi di tela, pendono dalle pareti alle quali sono appesi per dei chiodi. Ognuno di questi cadaveri ha una sua espressione inequivocabile ed ineffabile che fa pensare o al momento del loro trapasso o a quello che sono stati in vita, a ciò che realmente sono stati. Anche se, di tutte quelle persone che un tempo vissero, il tratto più forte ed appariscente è che la morte se ne è impossessata.

Quelle teste, braccia, gambe, nasi, occhi che un tempo furono vivi, sanguigni ora continuano ad esistere, ma sono della morte. Che li sostiene e, paradossalmente, li mantiene in una morta vita. Le loro facce sono deformate dall’imbalsamazione e dalla decomposizione. E si vedono: nobili in frac, garibaldini, donne in ampie gonne con i merletti, altre in semplici vesti. I colori sono tutti pallidi, i vestiti consumati, sbrindellati, strappati in alcune parti proprio come chi li indossa. Ci sono anche dei bambini - alcuni di qualche mese o giù di lì a giudicare dagli scheletrini - con la pelle disseccata e appiccicata strettamente alle ossa, come se la pelle si avvinghiasse alle ossa in uno sforzo supremo di continuare ad attaccarsi alla vita del corpo.

Tutti quei cadaveri sono lì, in un trovarobato teatrale assai macabro. Ciondolano dai muri disfacendosi come se volessero sfidare ancora la vita nel loro presentarsi come morti. Come morte che si da allo sguardo della vita.

Nelle idee dei Padri Cappuccini c’era il mostrare come il vivere sia ben poca cosa e come la morte "democraticamente" rende tutti uguali. Come democraticamente ed industrialmente anche i Pupi sono tutti uguali. Cappuccini nel tempo perdono le loro fisionomie delineate e dettagliate, un processo che anche i Pupi hanno subito e subiscono. Dall’essere finemente dipinti un tempo nelle loro facce, con gli anni un’industria artigianale rende i loro occhi, guance, bocche sempre più stilizzate e frettolose nei tratti. Il volto è accennato come in quei cadaveri. Questi Cappuccini e non, un tempo vissero le loro vite, ora sono invece lasciati in mostra ai viventi come se la vita in loro non ci sia mai stata poiché la vita è altrove è, propriamente: dopo la morte. Così quei corpi inanimati non hanno mai vissuto, sono nati morti. Quella che era la vita di un tempo si è fermata in un momento qualsiasi e questo non ha importanza se non per lo studioso di antropologia o di etnologia.

La morte stranamente lì sembra non esserci mai passata, pur essendoci sempre stata. La vita, quella che si intende religiosamente, è altrove, è fuori da quei corpi. E non potrà mai animarli come quei Pupi non reciteranno mai. Quelli dei Cappuccini, anche se con nome e data non sono dei veri cadaveri, come i Pupi con tanto di nome scritto sul cartellino non sono dei veri Pupi. In tutti e due manca qualcosa: la dignità per ciò per cui furono originariamente entrambi creati

 


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Reg. Court of Palermo (Italy) n°21, 19.10.2001
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Bibliography, links, notes:

pen: Vittorio Pavoncello

 
 
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