Avevo il cuore che mi batteva all’impazzata e temevo quasi mi scappasse via dal petto. Per questo mi sono rigirata nel letto tenendo premuta forte la mano sul basso ventre e sulla gola. Avevo paura che trovasse vie di fuga attraverso qualche apertura. Intanto sentivo le tempie sbattere tumultuosamente e mi chiedevo se le orecchie fischiassero così prima di un infarto. Già immaginavo il paginone su un certo giornale: precaria — con un contratto che è anche il verso di un simpatico animale, CoCoCò (collaborazione coordinata e continuativa) — scopre di non avere possibilità di rinnovare il suo impegno e schiatta (direi io) ovvero, ha un attacco cardiaco e muore.
Invece ho aperto e chiuso gli occhi e, dopo aver controllato ogni mia estremità, mi sono alzata con lentezza, sicura di non sognare. L’aritmia cardiaca, il contratto terminato, le sbarre attorno a me. Quelle che ho costruito per non scendere nell’agone e lottare. Adesso sono la "X"milionesima — ormai — casalinga d’Europa, normalissima, tra le sue adorate telenovelas, gli educational channels e i reality show: la mia vita privata. Come quella di tanti, in un palazzone di periferia costellato di antenne paraboliche.
Io mi faccio i fatti miei e caco le mie sacrosante uova. Poi, ad un certo punto, mentre sto sul pagliericcio, pacifica, succede qualcosa di strano: la luce che si spegne. Ho temuto il peggio…Eppure sono ancora giovane, posso fare ben più delle mie 16 ore quotidiane di luce ed eventuali covate. Mi sento orgogliosa dei miei piccoli mestrui potenziali pulcini: la smania di creare spinge a credere di non avere limiti. E poi va tanto di moda. CoCoCò: contributo di fondamentale importanza per la collettività dilazionato nel tempo. Purché si mantenga la propria identità, con occhiali e spuntatine al becco personalizzate. Ho bisogno di lavorare ed è perciò necessario subire qualche mutilazione. Le mie brave penne, lisciate con diligenza, le vorrei per sempre addosso; ma il programma non prevede una simile eventualità, suppongo. A rincarare la dose, intanto, nell’aria si percepisce in modo sempre più distinto il refrain di una famosa canzone rock. Perché forse a suon di musica si produce meglio.
Le note introducono la situation comedy show, on line e su satellite; è chiaro che spiano, controllano, sanno cosa succede in qualsiasi momento...risponde ad un antico desiderio l’ideazione della Grande Sorella. E’ una farsa, magari sì, ma chi mi dice cosa è vero e cosa no? Io so il dolore che provo a sbattere il becco contro l’inferriata che mi separa dal mondo, so le impossibili attese, le speranze, le miserie di quelli che non possono neanche gemere "CoCoCò". Forse mangiano tanto per questo e per questo sono cannibali, si nutrono persino del loro stesso guano...Spazzacultura e politica di basso profilo, voti in cambio di una casa, per l’acqua, il lavoro. Arrivano i rossi, i bianchi, i neri, come le piume sparse sulla lettiera, tra la mangiatoia e l’abbeveratoio — e noi ci aggrediamo, ci spenniamo, non ci sopportiamo più.
Avevo smesso di fare uova, era quello il dramma, e non me ne ero neanche accorta: avevo solo notato l’ombra dilatata, ad ingoiare il mio misero orizzonte. Ero diventata carne vivente, carne in piedi, un numero compreso fra uno e duecentocinquanta milioni di disgraziatissimi pennuti di sesso femminile destinati ad ingrassare in una stia formato francobollo. Come nei quartieri dormitorio in cui si stipano famiglie, animali, insetti, sogni e lerciume. Destinati tutti a diventare carne, carne da teleschermo, orecchie e occhi giganti, da macello, carne per sfornare figli oppure per eseguire ordini: apparire, produrre, uccidere. Carne vivente senza nome, con un anello alfanumerico stretto alla caviglia per segnalare l’appartenenza.
E’ forse il destino dei pavidi, li trasformano in polli arrosto perché non voleranno mai, pezzi di ricambio di tessuti connettivi, fibre muscolari, ghiandole — insomma carne e basta; elementi anonimi di un’infinita catena di montaggio, dove il destino è il preconfezionamento. Notizie, cibo, verità, emozioni. Posso già immaginare gli aromi che mi profumeranno, e scorgo perfino la macchina che mi spezzerà l’osso del collo, l’altra da cui penzolerò agonizzante, e poi un luogo buio in cui gocciolerò, con un briciolo di vita cocciuta e ancora serpeggiante sotto la pelle; infine c’è la sventratutto e il tritacarne per i pulcini di scarto (ci si fa il mangime per i cani). Va più o meno allo stesso modo per i vitellini, i maialini e per conigli, pecore, capre. Ma anche per gli umani perdenti, specie se poeti.
Pure agli struzzi è assegnato un bizzarro destino. Non paga nascondere la testa sotto la sabbia. Infatti nell’ultima fase li lasciano un po’ al buio tramortiti, con un cappuccio in testa e a pancia vuota, per stordirli; dopo li colpiscono ripetutamente, li immergono nell’acqua, danno una scossa elettrica per poi farli sanguinare, fino alla morte.
Allora comincia il pasto che fa della pregiata carne, strappata con la tortura, una moda effimera e crudele, ma molto chic.
Consapevole della mia fortuna, mi sentivo gallina eroica e privilegiata con i miei CoCoCò e il mio raspare affannato sul parchetto esterno; cosciente di me, del mio posto nel mondo, con quel numero di cromosomi e con quella specifica mappa genetica.Due zampe, incarnato chiaro, cervello quanto basta.
Decido di accendere la tv ma gli occhiali mi disturbano la vista: ho la sensazione che si tratti di un punto luminoso come un altro — un led, una stella cometa, il display di un cellulare che squilla? L’universo è fatto di questo, astri luminosi di pollina, deiezioni che orbitano attorno alle gabbiette in batteria, scagliate in velocità verso la volta celeste prima di essere stoccate e sottoposte a compostaggio, per essere riciclate.
La dicitura esatta è "a terra", ci allevano così — si dice — che vuol dire fermentazione, muffa, parassiti, microbi; il rischio è la plumofagia e il cannibalismo, sì, perché lo spazio è angusto: si tratta sempre di quattrocentocinquanta millimetri quadrati (lo schermo di un televisore), in cui vivere e pensare, con qualche rara scorribanda all’esterno. E’ meglio, sicuro, avere questo in sorte che non la curiosa fine delle oche (famosissime per il loro acume). Bisogna impalarle al pavimento, altrimenti chissà dove si ritroverebbero con quella innata furberia che le caratterizza; per questo le inchiodano a terra, con chiodi veri, di ferro, e a forza sono costrette a ingurgitare una nauseabonda pappa unta, per dilatare a dismisura il fegato e farci un prelibato patè de fois gras.
Guardando lontano, intanto, oltre i macchinari, vedo la luce, che visione...E’ il grande occhio! E’ così che funziona: un grande ombrello oculare intento a sorvegliare, a erogare bufale ed insufflare verità precotte, per condividere la stessa versione del Pensiero, la stessa sbobba mediatica che rimpolpa i fianchi e prepara al sonno eterno. E’ talmente en vogue, la Grande Sorella.
La mia vista peggiora e diventa ancora più penetrante. Si materializzano raffi e ganci da macelleria, sono croci celtiche, insetti dal velenoso pungiglione e dall’ancor più feroce lingua, e oltraggi alla memoria, fra litri e litri di sangue, e interiora che si dispiegano in aule di tribunali e vermi che infestano transatlantici, in gessato blu e doppiopetto, mentre dalla mia gabbietta tetra ogni volta che tento di beccarne uno quello mi scappa, e almeno lui è felice e sopravvive, millepiedi immondo eppure padrone della sua casa libera.
Qui mangio le mie feci e mi nutro di gusci e tuorli, e una rabbia primitiva mi fa desiderare una distruzione assoluta e totalizzante…Senza occhi, si dovrebbe essere, per non stupirsi della luce, che non è giorno e non è calore; mentre la notte si dispiega in una folata di stelle plumbee, e bui caroselli, e ritmi macabri e convulsi. Aspetto solo di fumare attonita e immobile su un piatto.
<>. Una dopo l’altra le immagini si susseguono, simili a orme; s’impigliano nei relitti bellici che le compongono, soffermandosi sull’espressione pensosa di un mattatore in temporaneo stato di quiete; riempiono di spettri il campo lungo dell’inquadratura, lasciando indovinare abusi, violenze e prevaricazioni di massa; scorrono ineluttabili come camion stracarichi di esseri viventi portati al macello.
Poi lo schermo sbiadisce, le immagini si scontornano e vanno in dissolvenza. Diventano pulviscolo inconsistente e lattiginoso.
Dopo un imprecisato intervallo di tempo ho avuto la conferma di un cambiamento. Nell’aria c’era un odore strano, all’inizio decisamente fastidioso, poi più familiare, dolce, invasivo.
La mia pelle era ruvida, non riuscivo più a passarci le mani sopra. Il mio incubo ricorrente - perdere una mano, un braccio, scoprirmi senza testa — era finito. Il cuore rombava ancora nelle tempie, nella mia bocca impastata di fumo e becchime, e le pareti e gli oggetti si erano fatti distanti e più grandi. Non mi sentivo a mio agio; ritornata a letto avvertivo sotto di me una morbida ed enorme piattaforma. Ero costretta ad assumere una strana posizione, prima dritta e poi accovacciata su un cuscino…Su un cuscino?!
Piano piano ho riaperto gli occhi. Mi sono guardata intorno: eravamo immersi in una strana penombra. Fogli di giornale e paglia giallognola, imbrattata di letame, erano sparsi sul pavimento. Marcello stava accanto a me; dormiva ignaro mentre l’alba impregnava l’aria di colori vividi, facendo largo al giorno. Cococò, mi dico, il mio contratto è scaduto. Cococò, ci sono dita uncinate ai miei piedi e due stecchi biondi e ispidi fin quasi al ginocchio. Cococò è un ritornello che mi ronza in testa e fra le vertigini mi fa scoprire una massa di penne bianche, nere, rosse e tozze ali che mi si stringono al costato. Io non spiccherò mai il volo. Il mio destino è una gabbia tritacarne, luminescente e spietata, come un quadrante luminoso e ipnotico senza uscite — spazzacarne, spazzacultura.
Al risveglio ho contato dieci dita delle mani e dei piedi e ho ascoltato il frusciare dei capelli sulle lenzuola inamidate. Ho spostato una gamba con perplessità, stupita di trovarla intera e implume. Allora ho sentito il bisogno di farmi un caffè e raggiunta la cucina ho acceso la Tv. "Camicie verdi" si chiamano e io sono ancora in tempo per partecipare al programma, una promozione da non perdere specie a quest’ora presto di mattina. Mi precipito al computer per visitare il sito e mandare una mail. Una folgorazione mi paralizza: non ho più un lavoro, come potrò pagare la quota d’iscrizione? Raccolgo incredula alcune piume cadute dal pigiama, mentre un tonfo sordo mi fa girare di scatto: dalla finestra ho avuto il tempo di scorgere un guizzo d’ombra. Se ridono va tutto bene. Infatti, sghignazzando, i miei vicini mi comunicano che il tipo dell’ultimo piano, anche lui ex CoCoCò, si è lanciato nel cielo credendo di saper volare. (fine)
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