Orgoglio e privilegio. Viaggio eroico nella letteratura lesbica, Il dito e la Luna 2003. Un libro che guida alla scoperta di un mondo ancora poco, o per niente, conosciuto in Italia: nonostante il recentissimo interesse da parte di grandi editori per la letteratura lesbica, quello di Margherita Giacobino è il primo saggio in lingua italiana dedicato all’esplorazione di autrici, tematiche e soggettività che da noi stentano a emergere e non hanno suscitato l’attenzione loro tributata in altri paesi. Il lavoro nasce da un corso svoltosi per due anni successivi presso il Circolo Maurice di Torino, e in parallelo in altre città d’Italia, corso che ha coinvolto decine di donne nel lavoro di lettura e analisi di vari testi appartenenti a quella che, come ci spiega l’introduzione, è la discussa categoria della letteratura lesbica. Perché discussa? Perché le scrittrici stesse sono tutt’altro che d’accordo nel definirla, e perfino nell’ammetterne l’esistenza; in questa diatriba, simile a quella tra chi propugna e chi nega la scrittura femminile, l’autrice non prende posizione, e ci propone invece uno spostamento di prospettiva, che pone al centro la lettrice e il suo desiderio: ‘mi sembra innegabile’, dice Giacobino, ‘che la letteratura lesbica esiste in primo luogo in rapporto a chi ne fa uso: la lettrice lesbica.’
Pier Carla Richetta (L'Indice dei libri del mese, numero di settembre 2003)
SA: Partiamo dalle parole, dall’Abc, da Eva ed Eva…Perché è difficile dire la parola lesbica?
MG: E’ difficile dire la parola lesbica perché è stata usata per secoli come insulto, strumento per umiliare e tacitare, per definire e quindi rimpicciolire, ridurre in possesso di chi definisce. Le parole hanno una storia, un passato, e sono sempre in relazione con le altre parole, il linguaggio è un sistema di segni all’interno del quale le parole possono, per così dire, spostarsi, cambiare segno: è quello che è successo alla parola black, nero, quando i neri d’America si sono messi a scandire Black is beautiful. Che le parole cambino segno è una cosa che succede continuamente, di solito per gradi e non per volontà precisa di un gruppo di parlanti; ma accade anche che un gruppo di parlanti (i neri, gli omosessuali che si sono appropriati della parola gay, eccetera) faccia scattare il cambiamento.
Nel caso della parola lesbica il cambiamento è particolarmente difficile perché si tratta contemporaneamente di omosessualità e di donne, e quindi le negatività da superare sono due, si elevano al quadrato. La donna è stata sempre associata al polo ‘negativo’ di tutte le dicotomie (giorno/notte, luce/buio, caldo/freddo ecc…) e il massimo di negatività per secoli si è concentrato sulla sessualità della donna; perciò una parola che designa una donna non sottomessa all’uomo, e caratterizzata dalla pratica di una sessualità diversa non può piacere al linguaggio eterosessuale e patriarcale dentro il quale viviamo e che vive dentro di noi.
Credo comunque che si possa cambiare di segno alla parola lesbica. Farla diventare una parola come tante altre. Una parola da usare come e quando ci pare opportuno e non più uno spauracchio.
SA: Cos’è una lesbica?
MG: E’ un essere umano a pieno titolo, che non si riconosce ne 'la donna', che è il rovescio, il negativo dell'uomo; e ovviamente non si riconosce neanche nell'uomo, che si è costruito come tale a spese della donna. La cosiddetta complementarietà dei sessi spezza l'umano, le qualità umane, in due parti e le distribuisce in modo ineguale e rigido, costituendo due sessi incompleti; ma l'incompletezza di uno è evidente, palese, e si costituisce in oppressione; mentre l'incompletezza dell'altro, il sesso maschile, appare solo formale, perché in realtà l'uomo quando parla di sé si ritiene sempre soggetto pieno, integro e universale (cosa che la donna è ben lontana dal fare, perché anche il nostro femminismo continua a esaltare il 'femminile' come contrapposto al 'maschile'). La lesbica, idealmente, è un essere umano che rifiuta questi rapporti di dominio tra i sessi e rivendica un diritto primario di ogni essere umano: essere soggetto intero, a pieno titolo. E proprio il fatto di essere 'eccentrica', cioè fuori dal centro del discorso (perché il linguaggio è eterosessuale, centrato su un presunto soggetto universale eterosessuale) permette alla lesbica di vedere meglio i rapporti di dominio che il linguaggio perpetua e sorregge; proprio come chi sta fuori da una certa situazione riesce a vederla meglio di chi la mette in atto.
Una lesbica può essere qualunque cosa, può essere felice di esserlo oppure vergognarsene, di sinistra o di destra, può essere nata donna o diventata donna. Può definirsi tale oppure rifiutare questa parola. La cosa divertente è che, anche se la rifiuta, verrà usata da qualcuno per definirla. Rispondo sul piano delle idee, e anche del desiderio: una lesbica, come ha detto Monique Wittig, è una fuggitiva, una che si è sottratta alla legge eterosessuale. Attenzione: il fatto di definire una lesbica al negativo e per rapporto all’eterosessualità (una non-etero, una che rifiuta e sfugge) non vuol dire negare che alla base della scelta ci sia una positività (il desiderio amoroso per l’altra donna), ma che per diventare davvero lesbica non basta desiderare l’altra donna, occorre scegliere di affermare questo desiderio, e ciò, nel mondo in cui viviamo, non si può fare se non andando contro, sottraendosi alla legge eterosessuale.
In parole povere, il desiderio deve essere abbastanza forte da indurre il soggetto lesbica ad agire, rifiutarsi di subire.
In altre parole ancora: non illudiamoci di avere il diritto di essere lesbiche. Il diritto ce lo diamo da noi stesse, ce lo conquistiamo, lottiamo perché sia riconosciuto ma non illudiamoci che senza cambiamenti significativi della mentalità e dei rapporti di potere (tra i sessi, tra i ricchi e i poveri, tra clan famiglie religioni) questo diritto ci venga concesso. Questo dovrebbe indurci (siamo sempre sul piano delle idee, anzi dell’ideale) a prendere posizioni critiche verso altre cose, altre oppressioni praticate nel mondo in cui viviamo. Dovrebbe darci una coscienza critica maggiore. Dovrebbe.
SA: E cosa una donna lesbica?
MG: Mi chiedi cos’è una donna lesbica. Ammiro la tua capacità di fare domande brevissime che richiedono risposte estenuanti!
Una donna lesbica è una che sente il bisogno di definirsi così, probabilmente perché è legata al pensiero femminista oltreché riconoscersi come lesbica.
‘Donna lesbica’ è esclusivamente un’autodefinizione. Dall’esterno nessuno chiama una lesbica una ‘donna lesbica’, né per farle un complimento né per insultarla. Almeno, a me non è mai capitato di sentirlo.
Questo non è un giudizio, anch’io mi sono interrogata per anni sull’uso che facevano le americane della parola lesbian, che era sempre sostantivo e mai aggettivo. Cioè per loro c’erano solo lesbiche, non donne lesbiche. Adesso che non me ne frega più un accidente di pronunciare la parola lesbica (invecchiando si perdono delle paure, perché le paure fanno perdere tanto tempo e a una certa età ti rendi conto che non te ne resta molto da perdere) la questione non mi turba più tanto.
SA: E una donna?!
MG: Wittig dice che ‘la donna’ non esiste in natura. E’ una categoria sociale, non naturale. La femminilità è un insieme di debolezze e fragilità, una catena simbolica per tenere le donne legate alla loro schiavitù (questa metafora è mia, non di Wittig).
Dice anche che le lesbiche non sono donne, perché si rifiutano di essere in rapporto di dipendenza — economica, affettiva, intellettuale ecc… - dagli uomini.
Io non sono così ottimista. Nei momenti neri tendo a credere che le donne esistono, anzi sono la stragrande maggioranza dell’umanità. E che le lesbiche sono donne. Purtroppo.
SA: Orgoglio e Privilegio è il primo saggio in lingua italiana sulla letteratura lesbica. Perché la definizione del genere non è pacifica e provoca tante discussioni?
MG: La letteratura lesbica è come l’uovo di Colombo, da una parte è un banalissimo uovo come tutti gli altri, dall’altra è quello di Colombo, inconfondibile e unico.
La letteratura lesbica è per me una categoria di comodo, uso questa espressione per indicare tutti i libri in cui entra in gioco il punto di vista lesbico, in modo più o meno dichiarato. Tutti quelli in cui una lesbica non si sente negata dalla presunzione che l’eterosessualità sia unica e universale.
Come tale, è una categoria letteraria trasversale, per usare una parola di moda: comprende libri noti e non, di ogni e qualsiasi genere letterario, di letteratura alta, bassa o di media statura, belli e brutti, tragici o a lieto fine, ecc… In ‘Orgoglio e Privilegio’ è citata un’ampia gamma di libri, e come si vede appartengono a filoni, o generi diversi. Alcuni sono stati scritti prima che la parola ‘lesbica’ assumesse il significato che ha adesso, e quindi bisogna tenere conto anche che la nostra lettura attuale attraversa, per così dire, strati di tempo.
La cosa importante, per me, è l’interazione fra letteratura e lettrice, l’effetto dei libri sul nostro immaginario, e da questo punto di vista i libri lesbici hanno sempre avuto per le lettrici lesbiche una grande importanza.
SA: Perché c’è bisogno di definire l’ambito culturale, il settore di appartenenza, la letteratura lesbica?
MG: E allora perché non chiederci perché c’è stato bisogno di definire una cosiddetta letteratura gialla? E perché esiste una cosiddetta letteratura delle donne? Perché esistono i cosiddetti romanzi, i cosiddetti saggi, i cosiddetti epistolari? La cosiddetta poesia e la cosiddetta prosa?
Forse perché la mente umana procede per catalogazioni? E tende a fossilizzarle, così ogni tanto è bene dargli una scrollata. Audre Lorde quando prendeva la parola in pubblico amava presentarsi come ‘Nera, lesbica, femminista, guerriera, poeta e madre’, mettendo insieme categorie che di solito se ne stanno separate; nei suoi scritti poesia e prosa si mescolano, autobiografia e romanzo, romanzo e saggio procedono insieme, e alla fine il risultato è un testo che sfida le categorie.
La nostra è la casa di tutte le diversità, diceva Lorde. Nella casa di tutte le diversità tutte le diversità hanno un nome, e nessuna è messa in una nicchia. Vivono insieme, si contaminano, a volte sono in conflitto, ma anche il conflitto può essere molto fecondo.
Ho già detto prima che letteratura lesbica è una categoria di comodo. Se vai in una libreria dove c’è un reparto ‘Letteratura Gay & Lesbica’ fai prima a trovare libri che in altre librerie magari non trovi proprio, oppure se ne stanno nascosti in un angolino. Inoltre, chiamare le cose col loro nome di solito ne facilita l’uso. Pensa un po’ se le forbici non avessero un nome, che scomodità. Ogni volta dovresti dire: passami quella roba che taglia e ha due manici in cui si infilano le dita. Come ancora oggi molte donne si ostinano a definire le lesbiche con simpatiche perifrasi tipo ‘donne che hanno rapporti privilegiati con le donne’.
Non tutto ciò che è vissuto, che fa parte del nostro quotidiano, ha un nome. Ci sono cose che vengono vissute, sperimentate ma non dette; oppure dette soltanto in certi contesti e non in altri. Pensa per esempio al discorso sul sesso, che per secoli è stato fatto solo dagli uomini, e solo in termini di pornografia o di letteratura più o meno ‘scientifica’, mentre le donne dovevano rigorosamente ignorare tutto del sesso, o fingere di ignorarlo. Oppure pensa a come sono stati visti dai colonizzatori i popoli colonizzati: il mito del buon selvaggio, oppure del selvaggio cattivo, ha alimentato per secoli la letteratura; adesso paesi che un tempo erano colonizzati possiedono letterature proprie, esprimono la propria soggettività, e non accetterebbero più che a parlare per loro e di loro fossero gli altri.
E’ il compito che Virginia Woolf affida alle scrittrici: parlare delle donne. Parlare di noi. E in particolare dei rapporti fra donne, che ai suoi tempi erano ancora la grande ‘terra incognita’ della letteratura. Adesso questa terra comincia a essere esplorata, nominata…
Immagina se esistessero cento parole per descrivere l’amore fisico tra due donne, i piccoli gesti, gli sguardi, il tipo di piacere che si dà e si prova. Ti sentiresti più ricca o più povera di adesso?
La cosa importante, quando si scrive un libro o lo si legge, resta sempre la bellezza. La verità delle parole scritte diventa bellezza, e la bellezza non è facile, non è riposante e se lo sembra è un’illusione.
Nessuna vuole scrivere un bel libro lesbico, tutte vogliono scrivere un bel libro e basta. Ma, e se le due cose, per un’autrice lesbica, fossero una cosa sola?
Il massimo di universalità — e non sono la sola a dirlo — si raggiunge quando si è massimamente se stessi, quando si ha il coraggio di guardarsi dentro spogliandosi dei pregiudizi dei luoghi comuni degli atteggiamenti autoprotettivi e affrontando le proprie paure.
SA: Di letteratura lesbica però in Italia se ne produce poca. La situazione è a dir poco desolante! E quel che è peggio è che nei romanzi in commercio le lesbiche fanno una brutta fine… "La sola lesbica buona è quella morta", nella sezione Catastrofi annunciate…made in Italy!
MG: Secondo me quello che è desolante in Italia è il panorama letterario in generale — per non parlare di quello politico, ma questo è un altro discorso.
E non perché non ci siano in Italia bravi scrittori e brave scrittrici, ma perché la concezione della letteratura che domina ancora in Italia è accademica, provinciale, manierata, la letteratura come altro da chi scrive, composizione letteraria, belle lettere. Tutte cose che a me fanno venire il latte alle ginocchia. Oppure, in versione più moderna, il libro commerciale fatto di un giusto amalgama di sesso, violenza e tinte forti. Emozioni da consumare e dimenticare subito, che non ti mettono in crisi non rischiano di farti pensare. Insomma la noia pura.
SA: All’inizio avrei voluto parlare dei luoghi comuni più diffusi sulla identità lesbica, sulla cultura lesbica e sulla dibattuta questione della letteratura lesbica. Ad una più attenta riflessione, non si può considerare soltanto l’opinione di chi ne sa poco o niente e, con superficiali generalizzazioni, parla di ghetto o di elite. Nel libro la prospettiva viene ribaltata, si sposta sul punto di vista delle principali fruitrici, le lettrici lesbiche, appunto.
MG: A metterci nella nicchia sono gli altri, non siamo noi. Se un’extraterrestre leggesse le parole con cui hai formulato questa domanda, e quelle di molte altre lesbiche quando parlano di ghetto & consimili, si farebbe l’idea che sulla Terra le lesbiche, nonostante i pressanti affettuosi inviti dell’opinione pubblica a sentirsi parte integrante e stimata dell’umanità, si ostinano a chiudersi in piccoli circoli semiclandestini; e che nonostante le suppliche di Mondadori, Feltrinelli & compagnia bella vanno a cercarsi dei piccolissimi editori squattrinati. I ghetti sono da sempre posti dove si viene confinati, non dove ci si confina da sé. Va bene accettare cristianamente tutte le sciocchezze che vengono dette sul nostro conto, ma farsene carico e pensare che le abbiamo inventate noi mi sembra un eccesso di carità cristiana. L’eroismo per cui non nascondo di avere un debole non ha niente a che fare con il martirio.
E’ vero, un ghetto lesbico esiste, come esiste un ghetto gay, un ghetto dei poeti, un ghetto degli adoratori del lardo di Colonnata: ci sono scrittrici lesbiche che scrivono per poche amiche o esclusivamente per se stesse, e infatti si apprezzano e si capiscono solo loro. L’autoreferenzialità, l’uso limitato e limitante della scrittura non è un difetto lesbico, è un difetto di chi ce l’ha, uomini e donne, lesbiche e no.
Circa il timore che si possa assimilare la letteratura lesbica a un ghetto o a un’élite:
Perché ce ne importa tanto?
A me personalmente non c’è niente che mi sa di ghetto più del mondo etero come viene pubblicizzato dai media (e anche da tanta letteratura di consumo). Le stesse battute dappertutto, la stessa ovvietà, la disperante mancanza di originalità; le donne sembrano tutte uguali, gli uomini pure, quando si incontrano sappiamo già tutto fino alla morte (la nostra, di noia). Il ghetto è ripetere le stesse cose, immaginare che i propri confini mentali siano i confini del mondo, essere ciechi alla diversità dell’Altro, sordi alla sua lingua.
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