Il 27 Aprile dalle 15.00 alle 17.00 le artiste Rosaria Iazzetta (Mugnano di Napoli, 1977. Lavora tra Napoli e Tokyo) e Giuditta Nelli (Genova, 1975. Lavora tra l’Italia e il Senegal) incontreranno gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. I seminari nascono da un’idea del Prof. Luca Sivelli, titolare del corso di Elaborazione Digitale dell’Immagine, e sono a cura di Mara De Falco. Di volta in volta un protagonista della scena artistica del territorio e non, è invitato a raccontare agli allievi il proprio percorso creativo in un confronto diretto e concreto con essi, con lo scopo di suscitare curiosità e dibattito. Utilizzare lo strumento dello scambio tra ciò che avviene all’interno del contesto accademico e ciò che accade all’esterno, per innescare reazioni. Offrire input attraverso le testimonianze di chi sperimenta su se stesso e verifica sul campo la propria azione creativa e la propria ricerca. Creare relazione affinché la didattica non resti confinata nel mondo dell’astrazione, ma trovi un’applicazione pratica nella quotidianità. Sono queste le finalità che animano il progetto. I seminari sono aperti anche ad un pubblico esterno all’Accademia. Dunque, chiunque volesse intervenire al dibattito, può farlo liberamente.
IABO e Roxy in the box sono stati i protagonisti dei primi due incontri.
Per il terzo appuntamento Rosaria Iazzetta e Giuditta Nelli si confronteranno con i ragazzi dell’Accademia sulla tematica dell’arte sociale. La loro ricerca è incentrata proprio sul costante confronto col territorio in cui operano, allontanandosi volontariamente dagli schemi e dalle prassi tradizionalmente seguite dagli artisti che si muovono nel ‘sistema’ dell’arte. Un percorso differente. Una scelta di campo votata all’impegno attivo, per e nel civile.
Dall’incontro con le due artiste nasce questa breve conversazione come spunto ulteriore per comprendere meglio e attraverso le loro stesse parole, intenti, significati, e finalità del loro lavoro: SocialMente Utile.
MD: Cosa significa per voi fare ‘arte sociale’?
RI: Arte sociale è la consapevolezza di non doversi limitare solo a se stessi, ma di avere come obiettivo un’utilità collettiva che supera i soli criteri estetici. Credo che questo sentire risponda in un certo qual modo ad una maturazione ragionata nel tempo, in cui, credere che il tuo pensiero possa diventare bene collettivo, non solo rafforza il pensiero stesso dell‘artista, ma ne trasforma quasi volutamente la logica e l’intimità stessa tra fruitore e creatore. Questa intimità diventa più profonda e motivata perché gli obiettivi s’incontrano con le priorità di chi soffre e di chi subisce soprusi di carattere etico e sociale. Gli obiettivi non sempre sono la volontà di cambiare degli stati sociali, ma la necessità di portare alla luce tutti i disagi primari passati in secondo ordine per una paura diffusa di affrontare gli stessi.
GN: Essere profondamente nel presente, vivere strenuamente l’attuale e difendere memorie passate che possano fortificare quelle future. Fare arte sociale significa, in primo luogo, essere animali sociali e vivere la propria appartenenza a un corpo che si senta (e si voglia) collettivo. Fare arte sociale significa, spesso, sentire di lottare con pochi in difesa di consapevolezze che dovrebbero essere di molti. Significa, soprattutto, essere coscienti del proprio ruolo di Abitanti e non rinnegare mai al proprio agire creativo una forte responsabilità etica. Come dico sempre, l’artista sociale abita poeticamente il reale (per dirla con Heidegger) e si dedica agli interstizi, quegli spazi che Gilles Clement definisce come non appartenenti né al territorio della luce né a quello dell’ombra.
MD: Qual è la vostra metodologia d’intervento? Come si caratterizza la vostra ricerca?
RI: Non credo d’aver individuato una metodologia ben precisa, ma credo d’aver scovato un sentiero che mi rappresenta, in cui, lateralmente, le siepi e gli arbusti crescono in maniera spontanea secondo l’umidità e l’acidità del terreno, quasi come la contaminazione del territorio avviene sulla metodologia d’intervento da attuare. Il territorio è il terreno in cui organizzo e gestisco la tipologia di seme da piantare. Le esigenze di socialità variano a seconda dei luoghi di appartenenza e per questo che anche il risultato visivo e il coinvolgimento collettivo non è fisso. Certo è che per interagire con il maggior numero di persone con problematiche di criminalità e di legalità bisogna valutare la loro capacità di percezione. Per questo motivo vario, secondo le necessità, da una dimensione linguistica attraverso l’uso esclusivo di parole scritte, per una presa diretta e immediata (http://www.youtube.com/watch?v=efHTpcZo3jk), ad una dimensione visiva attraverso l’immagine fotografica nel caso la percezione sia più alta (http://www.rosariaiazzetta.com/photo5-1.htm ). Adopero un linguaggio secco e apartitico che non usa mai violenza, e utilizza il glamour per avvicinare lo spettatore verso la realtà del dramma che quotidianamente subisce.
GN: Il principale strumento del mio lavoro è l’onestà, intellettuale e personale, l’essere spudoratamente limpida e lucida. Ogni mio intervento coinvolge persone, agisce in territori non solo fisici ma soprattutto emotivi, chiede collaboratività e sollecita incontri; questo mio agire comporta, quindi, che io curi e usi un atteggiamento sensibile nei confronti degli Spazi in cui mi trovo ad entrare. Il rendermi capace di cambiare continuamente piani d’azione e strumenti, il sapermi fare ‘liquida’ sono elementi fondamentali del mio agire. Per andare sul pratico, poi, gli arnesi del mestiere, i mezzi che utilizzo per comunicare le mie idee e sollecitare riflessioni, sono differenti a seconda dei contesti culturali ed umani in cui mi trovo ad operare; ho imparato a disegnare mappe della memoria, creare video-documenti, stampare sticker, compiere azioni urbane, fare fotografie con scatole di latta... per aprire conversazioni che diventassero poi progetti collettivi e condivisi.
MD: Quanto è importante per voi e per la vostra ricerca la didattica?
RI: Ho sempre visto la didattica come una fase importante nei processi d’apprendimento. Credo che la vita abbia molto a che fare con la didattica, perché la vita stessa è una sperimentazione nella pratica dei pensieri cresciuti tra gli ascolti di altri e il proprio io. Credo di avere didattica all’interno di ogni pensiero che s’indirizza al sociale, perché si pone come obiettivo la condivisione collettiva. Ove possibile, preferisco che i fruitori percepiscano a modo proprio una loro tecnica d’apprendimento, in quanto non credo che possa esistere un ‘sistema’ di apprendimento collettivo.
GN: La didattica è entrata a fare parte del mio operare in maniera prepotente soltanto negli ultimi due anni; prima ne apprezzavo le potenzialità e ne annusavo il senso profondo, ma senza comprendere come approcciarla. Soltanto nel 2007 è diventata strumento d’azione per il progetto collettivo e permanente IMPOSSIBLE SITES dans la rue, cui mi dedico da tempo, mostrando d’essere una modalità semplice e diretta con cui avvicinarsi al mondo dell’educazione e provocare quello della comunicazione. Il passaggio dalle dinamiche tipicamente da public artist - fino a quel momento utilizzate - al dinamismo di quelli che definisco laboratori urbani, mi ha fatto gustare la delicata forza che può avere l’entrare a contatto con la formazione e l’insegnamento, per provocarne tra l’altro le debolezze e stimolarne le tante potenze.
MD: Cosa direte ai ragazzi dell’Accademia? In che modo li stimolerete a proseguire il loro percorso?
RI: Mi sono sempre chiesta, quando ero studente, cosa avrei voluto sentirmi dire. Ora che ne ho l’occasione dirò quello che mi aspettavo che mi dicessero. Ad una certa età ed ad un certo punto, hai una capacità di percezione impressionante, e quasi senza saperlo ti aspetti che questa cosa ti venga detta da altri, specialmente quando sei studente in Accademia. Io credo che ascoltare la propria missione è uno degli step fondamentali per il successo della propria vita. Si vive per anni con il tormento se quello che si sta facendo sia la cosa giusta. Io credo che non esistano solo cose giuste, ma amore. Quando si ama non si può fare a meno di fare arte. L’arte è un’esigenza primaria che poi negli anni riduciamo a terziaria, fino a farla uscire dalla nostra vita. Riconoscere questa priorità sarà la mia prima volontà nell’incontro con i ragazzi. Supportare l’arte e riconoscerla come esigenza prioritaria, permette di contribuire al miglioramento di se stessi. Non posso consigliare di entrare nell’arte sociale, perche vorrebbe augurargli in questo momento di essere altro da se. Ma vorrei, se me ne fosse possibile, ispirarli all’amore, perché solo attraverso esso si può assaporare la libertà di credere e di fare.
GN: Racconterò, con l’entusiasmo che ogni giorno mi muove, le esperienze vissute in situazioni lontane dai giri da galleria. Racconterò le alternative, spesso non conosciute, all’omologazione creativa: inizierò con la Postaja Topolove; proseguirò con il folle ed autofinanziato IMPOSSIBLE SITES dans la rue; citerò l’attuale Incontri di Frontiera e introdurrò il prossimo lavoro per Progetto Isole. Dirò della magia di quegli incontri che hanno saputo scuotermi. Dirò della grandezza che sta nel sentirsi piccoli e pronti a difendere un’ancora possibile coscienza collettiva, nel tentativo di creare semplici stimoli e sollecitazioni intelligenti.
(Mara De Falco)
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