La parola paesaggio designa tanto una porzione di territorio nella sua concreta realtà fisica e morfologica, quanto la rappresentazione di una porzione di spazio dotata di valori estetici: a partire da questo presupposto, le ricerche in mostra indagano il paesaggio sia in quanto espressione della nostra identità sia in quanto generatore di esperienze estetiche.
Nonostante a un primo sguardo si possano cogliere notevoli differenze stilistiche tra i lavori esposti, sono diversi gli aspetti teorici e metodologici che li accomunano. Per gli autori in mostra l'uomo è parte integrante del paesaggio, non esterno ad esso, e la pittura di paesaggio non un'attività di mimesi ma lo strumento attraverso il quale tentare di riavvicinarsi e di riappropriarsi del reale. Questo movimento sui margini, tra il reale e la sua riproposizione estetica, permette loro di costruire una relazione sempre nuova con il mondo, di scoprirlo e di ripensare ciò che ci è conosciuto, contribuendo alla produzione di altri punti di vista. In questo lavoro di identificazione e successiva rielaborazione del paesaggio, la tela diventa sinonimo di possibilità e il lavoro un procedere per gradi: il tempo per soffermarsi su un particolare vissuto o luogo e per dare visione al presente, qualsiasi cosa suggerisca.
Il nostro è sempre stato un paesaggio culturale, ovvero non solo natura ma anche opera umana, territorio sul quale l'azione dell'uomo ha inciso in profondità, attraverso i millenni, lasciando ben poco della sua conformazione originaria. Di conseguenza la nostra coscienza del paesaggio è quella di una natura percepita attraverso una cultura (Paolo D'Angelo) e l'esperienza che compiamo di fronte ad esso non può essere mai un'esperienza puramente sensoriale, ma un processo che organizza quel che vediamo sulla base di componenti immaginative, emotive, memoriali e identificative. Su questo discorso si innesta il lavoro di Veronica De Giovanelli che riflette sul paesaggio come dimensione relazionale frutto della mediazione tra stato di natura ed esigenze umane. La sua è una forma di esplorazione intima e di presa di coscienza della singolarità dei luoghi, un'indagine costante tra sé e i contesti attraverso cui cogliere e restituire le qualità inespresse di un determinato spazio. Da sempre interessata a quelle che sono le energie sottese e le variabili dello stato di natura, da una parte nelle sue opere inscena manifestazioni di fenomeni naturali e dall'altra gli interventi per mano dell'uomo che hanno inciso profondamente sul paesaggio. Attraverso il punto di vista aereo e l'applicazione di velature fresche, fatte sedimentare in tempi diversi, Veronica evoca i luoghi e le strutture che abitano il nostro territorio, evidenziando l'idea di paesaggio come palinsesto e stratificazione vorticosa.
Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi (Ugo Morelli), per ciò la relazione con la natura non può ridursi alla sola identificazione estetica, come mera immagine, ma va ricercata anche all'interno di dimensione cognitiva e simbolica del paesaggio. Negli ultimi anni Andrea Grotto ha attraversato diverse fasi di ricerca che lo hanno portato a ripensare il paesaggio come ad un insieme simbolico di oggetti: realtà di riferimento da cui partire per interpretare il mondo ed esplorare i nostri universi concettuali ancorati al reale. Questo atlante simbolico in progress, annette forme sedimentate nel suo immaginario, delineando da una parte una sua personale geografia emotiva e dall'altra il suo interesse per le connessioni esistenti tra le immagini che compongono la nostra quotidianità e quelle radicate nell'immaginario collettivo. Il tempo è sospeso, gli ambienti non sono riconducibili a qualcosa di identificabile, il paesaggio si fa scultura, il fruitore è libero di identificarsi con l'immagine o semplicemente di farla propria. Il serbatoio di immagini da cui attingere non è più allora solo il paesaggio ma la sua personale memoria, i ricordi d'infanzia e le suggestioni legate a specifici luoghi: è a partire da tutto questo che Andrea ricostruisce dei set attraverso la sola riproposizione dei suoi elementi ausiliari - tappeti, scivoli, vasi, bastoni e scatolini - come fossero muti testimoni da cui ripartire per una rielaborazione dei luoghi del vivere. Rispetto a questo approccio sui confini tra il proprio mondo interno ed quello esterno, Stefano Moras vive il paesaggio come una materia sempre ricca di suggestioni, luogo dell'accadere, palcoscenico delle trasformazioni organiche e vegetali. I suoi lavori sono il risultato di studi ravvicinati della natura, un discorso molto personale tra autore e linguaggio, una ricerca costante che gli permette di comunicare e relazionarsi con il mondo. I suoi quadri sono come delle piattaforme sulle quali frammenti stratificati e parcellizzati della realtà si accumulano, scompaiono o riemergono. Fuori o dentro la superficie pittorica, la sua è una ricerca legata ai processi che possono suggerirci delle visioni del nostro reale, un modo di procedere nel quale ogni esperienza si sovrappone a quella precedente in un continuum ed incessante evolversi e ridefinire il suo apparire. Stefano non è interessato alla riproduzione o alla traduzione della realtà fine a sé stessa quanto alla sua rielaborazione a cui arriva attraverso un delicato lavoro di scomposizione e ricostruzione per frammenti. Così la tela diventa spazio vivo dove individuare delle coordinate e procede attraverso la proposizione di piccoli atti poetici, fatti di intagli, accostamenti, associazioni libere di forme, materiali e colori. Negli ultimi lavori in particolare l'ascolto dei fenomeni naturali e dei loro passaggi di stato non è più qualcosa di esterno ma qualcosa che si ritrova nel suo stesso fare, riscoprendoli come parte del processo pittorico. Nulla è stabilito, si tratta di inseguire una necessità, legata al proprio sentire, che tende verso processi di scoperta ignoti e inaspettati che si cristallizzano in visioni di insieme, frutto del confronto costante con la realtà circostante.
Il paesaggio è allora ciò che risulta dalla nostra relazione con il mondo, ovvero il risultato artificiale di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura, tanto che l'esperienza del paesaggio è in generale e in primo luogo, un'esperienza di sé (Michael Jacob). Perché esista un paesaggio devono allora esserci inevitabilmente un individuo e la natura, e tra i due deve innescarsi una relazione. La ricerca di Cristiano Menchini nasce proprio dal confronto fisico con il paesaggio, dal contatto diretto e dallo studio quasi scientifico di microcosmi vegetali. Muovendosi nello scarto che c'è tra il vero e la finzione, Cristiano ripropone universi simbolici, metafore di un mondo percepito, superfici dinamiche e indipendenti dalla realtà, non tanto per riprodurre un semplice gioco di rassomiglianze, quanto per evocare spazi altri senza tempo, che da qualche parte forse esistono o sono esistiti. L'interesse è per i processi a noi invisibili che determinano lo sviluppo del mondo vegetale, la parte organica e morfologica della natura che cambia a seconda del clima, del vento, della luce. Alcuni suoi lavori evocano calibrati ecosistemi vegetali, altri invece scenari primitivi realizzati in scala reale, altri ancora infine, attraverso la ripetizione di un unico elemento vegetale nello spazio della tela, orientano il discorso verso l'astrazione formale.
Nessun luogo è lontano nasce come punto di incontro di più esperienze per osservare il quotidiano attraverso l'arte e per riflettere sui differenti modi di vedere, percepire e fare esperienza del paesaggio. In un'epoca in cui la relazione con la natura non è più data ed è da reinventare e ricreare, la mostra, vuole restituire il desiderio di entrare in risonanza con il paesaggio, provando a recuperare questa relazione attraverso la visione estetica e la sua rappresentazione. Il titolo della mostra, tratto dal libro omonimo di Richard Bach, riporta l'attenzione su un tutto ciò: nessun luogo è lontano, tutto ciò che non è in mostra è possibile guardarlo fuori o ritrovarlo dentro di noi come qualcosa che non è mai andato perduto. |