Vedere Jan Lukas senza macchina fotografica capitava solo di rado. Il papà lavorava senza sosta, con energia ed entusiasmo. Aveva moltissimi interessi e idee e soprattutto gli piaceva pensare che con le sue fotografie rendeva felici gli altri, che poteva donare ciò che aveva fissato o scoperto. Nulla riusciva a distoglierlo dal lavoro, neppure se presumeva che per lungo tempo non avrebbe potuto mostrare a nessuno le fotografie, come capitò, ad esempio, al suo Diario praghese 1938 – 1965 (Torst), che il pubblico ebbe la possibilità di vedere solo nel 1995. Gli piaceva condividere ciò che aveva visto, non solo tramite le fotografie nelle riviste illustrate e le raccolte pubblicate, ma anche consegnando personalmente e in modo del tutto informale buste piene di fotografie di questa o quella ricorrenza o riunione con gli amici. Il diario qui presentato registra i dieci mesi trascorsi nei campi profughi italiani. Uno strano periodo della vita della nostra famiglia. Un tempo pieno di attesa, di aspettative. Non riesco a trovare parole più appropriate della prima frase del romanzo di Dickens Racconto di due città: “It was the best of times, it was the worst of times.” (Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi). Infatti diventammo profughi dopo aver preso la decisione fatale di abbandonare la patria fuggendo attraverso il confine italo-jugoslavo il 21 agosto 1965. Decisione che non fu né impulsiva né avventata, ma al contrario pianificata da tempo e di fondamentale importanza. Non vedevamo la fuga come un segno di codardia o di debolezza, ma come un atto necessario che avrebbe dimostrato che eravamo responsabili della nostra vita e che ci rifiutavamo di prendere parte al suo stravolgimento (sicuramente era possibile vivere una vita senza compromessi anche nella Cecoslovacchia comunista, ma ciò richiedeva una dose di coraggio che noi non avevamo). Rinunciare alla patria, alla lingua, alla famiglia e agli amici – fu un prezzo estremamente doloroso da pagare. Il papà non si lasciò turbare e durante questo tempo di incertezza continuò a vivere come sempre, fotografando instancabilmente ciò che era importante e ciò che, di primo acchito, non lo era. Nei campi profughi, come a volte succedeva a Praga, era difficile trovare le pellicole poiché ci mancava il denaro, ma non appena ne arrivava un po’, grazie alla generosità degli amici ceco-americani, lo spendevamo innanzitutto per acquistarle. Vivemmo tre settimane nel campo profughi di Trieste, poi tre settimane a Latina non lontano da Roma e otto mesi a Capua vicino a Napoli. Grazie all’automobile eravamo più liberi degli altri profughi e vedemmo molto di quel meraviglioso paese. Gli italiani provvedettero ai nostri bisogni più elementari, cosa che apprezzammo molto. Se nella nostra mente non si fossero agitate le preoccupazioni per il futuro, avremmo potuto dire che quella era una delle vacanze più belle e più lunghe mai trascorse.
Lo sviluppo delle pellicole dovette attendere il nostro arrivo a New York e la possibilità di usare la camera oscura di Hella Hammid, la moglie di Sasha Hammid/Alexander Hackenschmied. L’elaborazione di queste fotografie fu poi abbastanza sporadica, poiché altri lavori richiedettero necessariamente il tempo del papà. Appaiono nel Libro della vita, gli album personali, mio e di mia sorella, e alcune di esse furono inserite nelle sue mostre e nei suoi libri. Ma diceva spesso che gli sarebbe piaciuto ritornare a occuparsene. Fu sempre entusiasta dell’Italia (il primo viaggio lo fece nel 1930, a quindici anni) e ricordava intensamente e con gratitudine quello strano periodo tra il 1965 e il 1966. Parlavamo di come avrebbe voluto ringraziare l’Italia per averci concesso asilo politico e aver provveduto alla nostra famiglia con una mostra di fotografie risalenti a quel periodo, ma per il trentesimo anniversario della fuga non ci riuscì e quando si stava avvicinando il quarto ormai non gli fu più possibile.
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