L'espressione “deserto verde” nasce in Brasile alla fine degli anni Sessanta, per definire tutte le monocolture arboree su grandi estensioni finalizzate alle produzione di cellulosa. Già allora, il termine alludeva alle conseguenze che si sarebbero prodotte nei decenni a venire sull'ambiente: desertificazione, riduzione della biodiversità, migrazione forzata delle popolazioni.
Proprio Deserto verde è il titolo che Juliana Gomez Montes dà al suo progetto, originato da una riflessione sulla coltivazione intensiva della palma da olio in Colombia, suo paese d'origine. In mostra a Elastico dal 19 al 30 novembre 2011, si compone di una serie di stampe – in diversi formati e su diversi supporti cartacei – realizzate con la paziente tecnica della lineografia.
Gli animali autoctoni dell'America Latina sono il soggetto della serie, e hanno un valore simbolico “allargato”: funzionano infatti come parte per il tutto, sono una sorta di ponte verso tematiche più ampie che coinvolgono l'attualità sociale e politica non solo colombiana, ma comune piuttosto a molti paesi sudamericani.
L'insieme delle opere in mostra – ciascuna delle quali con vita propria anche in sé – origina una sorta di organismo, in un sistema di insiemi e sottinsieme che riproducono la complessità sistemica di un fenomeno che va ad incidere pervasivamente sulla natura e sull'uomo.
“Il mio lavoro tratta le problematiche legate alla monocoltura di palme da olio per la produzione di sostanze usate quotidianamente nel mondo intero, in particolare il biodiesel. In questo modo, la biodiversità della foresta tropicale, dove si concentrano queste piantagioni, è destinata a scomparire. Io pongo il problema – che riguarda diversi paesi, non solo la Colombia – di questa produzione definita 'ecologica'. Dobbiamo generare lo spostamento delle popolazioni, la scomparsa della biodiversità della flora e della fauna e l'aumento di CO2 per sostenere i profitti degli industriali mondiali del deserto verde?” |