Alle due estremità vi sono due immagini identiche. Come in un gioco di specchi rovesciati riflettono all’esterno. Nella colonna infinita di Brancusi è il segno del legame tra cielo e terra che viene reiterato come aspirazione alla ricongiunzione, necessità agognata per essere oltre l’impermanenza umana, di superarla o di trascenderla. Ora la colonna, spezzata in tre parti, è a terra aderendo alla sua orizzontalità. La sua peculiarità non è solo la forma ma anche l’immagine veicolata; di fatti, nelle parti in cui è tranciata, moltiplica un’unica immagine in sei copie, è un ritratto in bianco e nero, identico sulla superficie dei tagli. Se pensiamo alla colonna la pensiamo di un materiale che possa sfidare il tempo. Qui non si tratta di marmo e tanto meno di materiali forti. Qui la colonna è il risultato di sovrapposizione e di accumulazione di quello che, solitamente, è l’emblema e il senso della nostra identità, il ritratto, la figurazione o il modello cui vogliamo aderire. Se volessimo frazionarla ulteriormente, in ogni sua parte apparirebbe la presenza del ritratto. Perchè se la vita è trasformazione necessaria, circolarità o passaggio continuo, in cui la stasi e il movimento coincidono, qui il risultato è la potenzialità infinta di accumulazione ma anche di frammentazione. Se tu rompi l’uno (la colonna), in ogni sua parte riapparirà la figura rappresentata. Perchè nel gioco infinito delle possibilità nel più piccolo, infinitesimo granello (onda o corpuscolo) di materia, vi è l’informazione del tutto. Il gioco di Naoya è sul filo dell’ambiguità di ciò che è considerato identico, simile o uguale in una tradizione in cui la singolarità è parte del tutto, e in cui il fine sovrasta lo scopo delle esistenze individuali. Occhieggia quindi il senso di flessibilità di una cultura, quella giapponese, che di fronte agli eventi si piega ma non si spezza, come la canna di bambù mossa dal vento. Ma nell’opera di Naoya vi è un corto circuito del senso profondo del concetto di identità. Quello che si pensa essere singolarità o particolarità è modello reiterato, insieme di immagini che formano il tutto. E’ quell’insieme a fare la colonna infinita mostrata nella sua peculiarità di impermanenza. La flessibilità della canna di bambù ora è colonna adagiata in cui i tagli alle estremità sono orizzontali e diagonali così che la figura, il ritratto, ne risulta deformato. Nella ricerca di Naoya Takahara vi è spesso la presenza del taglio, quale incisione sui libri, sulla carta. E’ un atto paziente che predispone il tempo nell’opera mostrando la precarietà delle costruzioni umane, come la stessa rappresentazione degli atlanti o delle antiche carte testimoniano. Lì lo strato delle pagine dei libri, incisi sulle parti laterali, mostrano che la mappa è visibile solamente con la somma delle pagine, una sull’altra. Si tratta di due azioni operate dall’artista che le incide a mo’ degli antichi incisori; ma l’azione è quella di una pratica di svuotamento in cui i due atti sono coincidenti in accumulazione e sottrazione a mostrare che lo zero è il tutto poichè tra zero e uno non vi è differenza qualitativa. Nei Due mari, un lavoro che ugualmente opera sull’accumulazione e sulla frammentazione, è la sottigliezza della carta, due mappe di due mari, che, sommandosi una all’altra, va a formare due colonne, questa volta protese in verticale a mostrare l’immagine solo in alto. Ai lati permane il colore come visibilità di sovrapposizione mostrando la superficie come insieme di linee. Quello che per l’occidente è l’ossessione dell’immagine, nel lavoro di Naoya, è giocato in sottrazione e la reiterazione, come il suo surplus, divengono per l’artista un modo per ‘scantonare’ la questione, raggirarla, mostrandone la debolezza. Come le identità sono stratificazioni di generazioni, di saperi, di esperienze, così i singoli vivono di riflesso essendo il risultato di una storia che, se scompaginata, si mostra in deformazione e priva di sostanza. Si legge nel lavoro di Takahara il confronto tra occidente ed oriente; è un tema, il suo che è insito nella sua ricerca, in quanto corollario della permanenza in Italia che data da più di trent’anni. Ha avuto quindi l’occasione di osservarne, in distanza critica, le ossessioni e le crisi. Se i riferimenti sono ai concetti spaziali di Fontana, il taglio qui non è l’apertura di un nuovo concetto di spazio, perchè ,nella sua cultura, quel concetto di spazio non è idea separata ma pratica di vita quotidiana, modalità di essere nel mondo e nelle cose. Poichè l’atto di svuotamento, come quello di accumulazione non sono due parti concettualmente diverse ma solo una maniera di arrivare ad una medesima qualità delle cose e di se stessi. L’accenno, nel titolo dell’opera, quindi si riconduce ad una tradizione, qui occhieggiata in senso ironico e festoso, ‘Paraculo’ e/o Kintaro Ame. Questa è una particolare caramella a forma allungata, come un bastoncino di molti colori. I maestri artigiani della pasticceria la lavorano, torcendola sino a quando, alle due estremità, compare un ritratto approssimativo del festeggiato: paraculo, appunto.
Gabriella Dalesio
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