Dal 9 al 19 dicembre 2010 va in scena al CRT di Milano L'abréviation de ma vie, una produzione Araucaìma Teater, per la regia di Alberto Salvi. A luglio 2006 il gruppo inizia la lavorazione dello spettacolo teatrale, che debutta ad ottobre del 2007 a Bergamo. Il lavoro si caratterizza, tra le altre cose, per l’assenza di musiche registrate: canti, sonorità e sottofondi armonici sono eseguiti dal vivo.
Araucaìma è la casa. E’ grande. Si sentono i rumori dell’acqua e del vento. Si annusano gli odori. C’è Don Graci. Lui è il padrone. A volte sembra flaccido a volte delicato. Gli piacevano i ragazzi, adesso non più. E’ un padrone. Meglio rispettarlo se si vuole il meglio. C'è anche il frate. Nessuno sa il suo nome. Parla francese e prega, tutti i giorni. Fa i conti con il pilota. Il pilota che sorride sempre. Come a scusarsi di occupare un posto che nessuno gli ha offerto. Parla correntemente cinque lingue ed è autore di una canzone dall’assillante ritornello. E’ un debole. E irrita la Machiche. Femmina matura e rigogliosa. Fianchi poderosi fatti per schiacciare, non per accogliere. Ma nessuno vive nella casa. Non più. Di loro rimane l’ombra, sembianze di corpi, feticci. L'unico è Cristòbal, il servitore. Lui vive. Buono. Fa la macumba, i riti. Con le erbe macerate al posto degli animali. E monta gli cheval, i posseduti del voodoo. E’ forza animante dei loro corpi, si muove e parla la loro lingua. Lui che ha difficoltà di parola e passo da scimmione, da Baka, lo spirito che vaga e prende sembianze animali. Poi arriva Angela, vittima sacrificale. Angela dall’espressione stancamente felina, sempre all’erta. Un’ombra morbosa, tragica, galleggia sbiadita nelle sue pupille. E' un buon modo di finire, la casa.
Nell'esplorazione del linguaggio fisico si è rimossa la parola dal rituale teatrale, per vedere come questo mettesse in evidenza altre forme. L’azione e il gesto come mezzi di comunicazione prìncipi, quindi. Poi la parola torna, ma ora come ricamo certosino dell’azione, tracciando per schizzi e frammenti la mappa di una sorta di territorio carsico, dove figure e sfondi logorati e decadenti vengono inghiottiti per poi riemergere all’improvviso come per la prima volta. Sullo sfondo il coro. Elemento sonoro, musicale scenografico che assurge a ruolo di burattinaio. Che sarcasticamente amplifica, risuona, accompagna, sottolinea con il potere di chi vede ma non è veduto, sente ma non è udito, come un dio implacabile che gioca con il destino che non gli appartiene. Coro che assume valore simbolico di terra, fertile humus dal quale tutto nasce per tornarvi, grembo accogliente e tappeto rigoglioso di metastasi umane che tutto ingloba e rigenera. La scena è spazio vuoto, solcata indelebilmente dagli eventi. I personaggi ne segnano il percorso, vivendo, incontrastati, elementi di enorme veemenza. Da sempre l’uomo non ha accettato né il sesso né la morte come dati bruti della natura. Grazie a una strategia ponderata che respingeva e incanalava le forze sconosciute e formidabili, si ottenne e si mantenne uno stato d’equilibrio. La morte e il sesso erano i punti più deboli del muro di cinta, perché la cultura vi prolungava la natura senza discontinuità evidente. Quindi furono sottoposti ad accurato controllo. L’abréviation de ma vie narra di un non luogo e di un non tempo dove il controllo di queste forze è perduto. L’istinto domina ed è prodromo di tragedia. L’inconscio si rivela nella sua molteplicità e, proprio perché indomito, si scatena violentemente. Spazza via tutto lasciando solo il vento a sibilare lungo i ballatoi dell’anima vuotata. L’ultimo volto è il volto con il quale ti accoglie la morte. (Note di regia)
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