L’espressione mise en abyme, di origine francese, significa "collocato nell'abisso” e risale ad Andrè Gide che la usa per la prima volta nel suo “Diari” nel 1893. «Mi piace molto che in un’opera d’arte si ritrovi trasposto, a livello di personaggio, il soggetto stesso dell’opera, a confronto con quel procedimento del “ritratto” che consiste, nel primo, a mettere il secondo ‘en abyme’». (André Gide)
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L’espressione mise en abyme, di origine francese, significa "collocato nell'abisso” e risale ad Andrè Gide che la usa per la prima volta nel suo “Diari” nel 1893. È un meccanismo complesso utilizzato in tutte le arti, dal cinema, alla letteratura, alle arti figurative, per cui un’immagine contiene una piccola copia di se stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. E' dunque mise en abyme, così la definisce Dallenbach, «ogni inserto che intrattiene una relazione di somiglianza con l'opera che lo contiene». L’opera d’arte si arricchisce così di significati e rappresentazioni introducendo i concetti di sogno nel sogno o di storia nella storia. Si perfeziona in tal modo, una bidirezionalità nelle dinamiche relazionali tra fruitore e opera che si esplica in una sorta di reciproca convocazione. Mai come in questo caso il vedere equivale al conoscere. Antonio Capaccio, Maria Pizzi e Giuseppe Tabacco, si muovono in questa direzione. Essi costituiscono un gruppo eterogeneo e nessuno di loro rientra in una tendenza codificata, ma in tutti e tre è preminente l’esigenza di ridefinire il linguaggio dell’arte, attraverso l’apertura del campo semantico e la manipolazione di molteplici ambiti. Inoltre, in ognuno, il rapporto con lo spazio espositivo di “TRAleVOLTE”, riesce a dilatare indefinitamente le qualità percettive. Si tratta di una chiamata al piacere intellettuale, labirintico, turbinoso, dell’opera d’arte, che si traduce in una riflessione sulla sua stessa identità. L’opera concepita non come mera replica del concetto mentale dell’artista ma - parafrasando Arnheim – come “continuazione della sua invenzione formatrice”, frutto del dialogo costante tra colui che la concepisce e la concezione che gradualmente prende forma nel medium dell’opera, che riserva così infinite sorprese e suggestioni. Raffaella Rinaldi |