Talvolta ci si dimentica che New York è una delle più vecchie città del mondo. Forse non lo è quanto Roma, ma nemmeno è l'ultima arrivata. Jacob Burckhardt, nato nel 1949, figlio del fotografo-filmmaker Rudy Burckhardt e della pittrice-critica d’arte Edith Schloss, ha vissuto a Manhattan fino all’età di dodici anni, dopo di che i suoi genitori si separarono e sua madre partì per Roma portando il figlio con sé. Jacob sembra essere nato un vecchio saggio, dall'atteggiamento paziente, rassegnato, a metà fra malinconico e giocoso: ha assorbito l’antica atmosfera di Roma, da straniero stupefatto, durante la sua adolescenza, solo per tornare a New York da giovane adulto e trovarsi ad essere nuovamente una specie di straniero, questa volta nella sua città natale. La sua prospettiva da semi-outsider era ideale per cogliere la città da una angolazione bizzarra, tenera, da shock culturale. Dal 1973 al 1980 visse a Red Hook, Brooklyn, all’epoca una zona difficile e misera dove gli affitti erano modesti. Oggi è divenuta una zona residenziale, ma a metà anni Settanta, epoca in cui tutta New York stentava a riprendersi dalla crisi finanziaria ed era costretta a tagliare servizi sociali e raccolta dell'immondizia, Red Hook aveva perso il suo porto e appariva desolata. Costituiva una ricca miniera visiva per il nostro fotografo, così attratto da quella che lui chiamava “friabilità” e “decrepitezza”. Spesso vagava fino al fronte del porto, deserto tranne che per qualche raro rimorchiatore, aggirandosi per luoghi abbandonati, gustando l'estetica delle rovine. Una facciata di mattoni dalle finestre chiuse con assi si offriva come un quadro astratto bell'e pronto. Le crepe nel marciapiede fornivano un'abbondanza di affascinanti textures melmose. Gli uomini o ragazzi disoccupati che bighellonavano in questo quartiere italoamericano evocavano bizzarramente i film neorealisti del dopoguerra. Burckhardt preferiva cogliere i suoi soggetti quando non erano consapevoli di esser guardati, né tanto meno fotografati; a questo scopo, spesso scattava senza guardare nel mirino della macchina. Le sue angolature erano raramente regolari. Ciò che lo intrigava era l'ordinario, il non-illustrativo, l'apparentemente scialbo, i cui lampi di vitalità sarebbero perciò emersi più fortemente. Sebbene alcune delle sue immagini suggeriscano storie (come il cane in cima all'insegna del supermercato), in generale si teneva alla larga dalla narrazione. Non gli interessava la leziosaggine: la forza di queste fotografie modestamente luminose, che coprono gli ultimi quattro decenni, deriva più da certe gustose disgiunzioni compositive, da controspinte accidentalmente eleganti. Come le automobili costrette a muoversi attorno a un veicolo parcheggiato nella neve, o le folle obbligate ad aspettare il proprio turno in grandi magazzini e metropolitane, tutto in questo particolare universo deve adattarsi alle inflessibili circostanze che incontra. Queste limitazioni imposte a un movimento aggressivo, ambizioso finiscono col diventare una sorta di disciplina spirituale, simile all'umiltà, o alle consolazioni della filosofia.
Phillip Lopate, aprile 2010
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