Il 6 aprile 2009 il tempo si ferma a L’Aquila e scuote per sempre il suo punto più fragile ed antico, il suo centro storico, da quel giorno ribattezzato per tutti Zona Rossa.
Federico Collovà, alla sua prima personale come fotoreporer, sceglie di mostrarci, attraverso le immagini, il volto più crudo e drammatico di una catastrofe in-naturale, il terremoto, con la sua forza distruttiva, rapida ed improvvisa. Un’energia violenta che non coglie differenze né fa eccezioni: i palazzi del governo e del potere come la chiesa cittadina o l’ospedale diventano edifici espugnabili alla stregua di una qualsiasi semplice abitazione.
L’Aquila è una città violentata, dove la privacy e l’intimità delle case sono venute meno insieme ai suoi abitanti, dove non esistono più confini e strade.
Il centro dell’Aquila, inagibile e da mesi disabitato, con il trascorrere dei giorni assume le sembianze di una città fantasma, dove gli unici autorizzati a varcarne le soglie sono gli uomini della Protezione Civile. Estranei. Nelle immagini l’assenza silenziosa della vita e dell’elemento umano evocano tragicamente le vittime e chi dalle case diroccate è stato costretto a fuggire e forse a non tornare.
Gli scatti di Collovà, dove l’uso del bianco e nero serve a marcare il tentativo di descrivere in maniera quanto più autentica ed oggettiva lo scenario postbellico de L’Aquila terremotata, ci parlano in silenzio di una città lacerata, sfigurata, dove crepe e crolli sono ferite lontane dal rimarginarsi, accentuate dall’uso enfatico e tagliente che il fotografo fa della luce, raggiungendo in questo modo un realismo che imbarazza lo spettatore.
Un silenzio assordante. Davanti a questo silenzio, le fotografie sono contingenti, necessarie. Registrano e cristallizzano la realtà: da un lato la distruzione, dall’altro il desiderio di ricostruzione. Senza propositi o finalità politiche o morali. Le architetture fotografate da Collovà sono nude e tradiscono l’equilibrio precario che ancora le sostiene: icone della tragedia aperte all’interpretazione o ad un’inevitabile strumentalizzazione. La mostra vuole fermarsi un secondo prima e desidera solo far vedere.
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